sabato 25 ottobre 2008

Il primato della pietà: un assaggio in adhoc-crazia

venerdì 24 ottobre 2008

INSEGNARE AGLI IGNORANTI

di Nicola Di Paolo


Pubblichiamo, con riconoscenza verso l'autore (nostro amico/compagno di avventure e lotte), uno dei quattordici racconti - come le quattordici opere di misericordia corporale e spirituale - che costellano il suo ultimo libro, Il primato della pietà, edito da FaraEditore. Narra in modo soffice e garbato, pure al contempo tenace e deciso, il mondo dell'istituzione scolastica e i suoi protagonisti: studenti, docenti e non docenti, genitori. Ma soprattutto fa "vivere" in Marcello, Mariella e Donato - i protagonisti del racconto - un mondo nuovo già presente nei nostri cuori. Grazie, Nino.

Mise piede nel mondo della scuola, ma dall’altra parte, a metà settembre del 1982.
Classe 1964, la sua prova orale per il conseguimento del diploma magistrale si era tenuta il 12 luglio, due mesi prima.
La notte precedente l’esame non dormì, come quasi nessuno, peraltro.
Tutta l’Italia stava festeggiando l’evento. Soltanto le persone più anziane avevano memoria delle vittorie del 1934 e del 1938, vittorie senza televisione e senza automobili a strombazzar per strada. Questa era una vittoria a colori, in diretta ed alquanto rumorosa.
La Commissione fu di manica larga con tutti, quel giorno.Marcello si mise in tasca un bel quarantotto.Quarantotto sessantesimi era un otto pieno, un voto che, in quattro anni, aveva visto una mezza dozzina di volte in tutto, più frequentemente in latino che in italiano o in matematica.

Un maestro, in un mondo di maestre, è come un animale in via di estinzione, curato, coccolato
e protetto.
Il suo accesso ai ruoli di insegnamento fu,così, relativamente agevole : prima le rituali supplenze, poi uno degli ultimi treni per la “sistemazione”, arrivata nell’anno scolastico 1989-1990.
Nel 1990 si iscrisse, da privatista, al “quinto anno”, quello che gli permetteva di accedere ad una facoltà universitaria.
Il “pianeta elementari” era caratterizzato, per i bambini, dall’acquisizione di alcuni fondamentali strumenti intellettivi: l’appropriazione dei numeri e delle lettere in prima, la memorizzazione delle tabelline verso la fine della seconda, le tecniche per la divisione a due cifre in quarta, le parti del discorso, progressivamente fino alle coniugazioni verbali, al loro punto più complesso (i tempi del modo congiuntivo) e ad un primo abbozzo di analisi logica in quinta.
L’innato senso di competizione tra bambini era sostenuto dalla gratifica della valutazione positiva, nonostante l’atteggiamento tendenzialmente materno di buona parte del corpo insegnante non pareva desse peso all’aspetto premiale del rapporto tra il bambino e lo stimolo alla conoscenza.
La facoltà a cui si iscrisse era quella di storia.
Raggiunse la laurea in otto anni , molti, ma indispensabili per chi deve coniugare studio e lavoro.
Aveva completato tre cicli didattici e portato, quindi, dalla prima alla quinta tre classi di bambini.
In quei quindici anni aveva imparato a memoria in quale fase della loro crescita gli scolari erano più “recettivi” ed in quali, invece, erano più “intrattabili”.
Osservava che alcune sue colleghe, nonostante fossero in servizio da più tempo di lui, continuavano a meravigliarsi dell’irrequietezza dei piccoli, come dimenticando che quelli del ciclo precedente erano diventati scatenati esattamente nello stesso momento rispetto a coloro che erano passati di lì cinque, dieci o quindici anni prima.
Avevano tra le mani strumenti di distrazione diversi, dai meno ai più tecnologici, ma il richiamo della foresta si percepiva sempre nello stesso momento.
Nelle riunioni con i genitori, le frasi che, fatalmente, sentiva ripetere da buona parte dei suoi colleghi erano: “Rispetto allo scorso anno scolastico la classe, per ciò che riguarda l’apprendimento non è peggiorata, ma il comportamento…”
I genitori manifestavano tre tipi di reazione.
C’era chi alle assemblee di classe non veniva proprio.
C’era chi veniva e non parlava neppure sotto tortura, per il sospetto che ogni cosa avesse detto si sarebbe ritorta contro i propri figli.
C’era il babbeo che invocava, puntualmente, un atteggiamento sempre più severo della scuola verso gli indisciplinati, individuati, ovviamente, sempre nei figli degli altri e mai nei propri.
Gli unici argomenti che i genitori maneggiavano con impareggiabile competenza erano le gite
scolastiche e la gestione del fondo-cassa per la festa di fine anno o per l’acquisto della carta igienica e dello Scottex che, notoriamente, a scuola non bastano mai.
La discussione, quando si apriva, si svolgeva in senso pressoché univoco : il genitore entra timido ed esce bastonato, pieno di sensi di colpa per il comportamento dei figli.
Mai una domanda sulla didattica o sui progressi intellettivi dei bambini.
Nessuna comunicazione di contenuto tra i detentori della scienza pedagogica ed i portatori d’ansia ed ignoranza.
Periodicamente, arrivavano direttive elaborate congiuntamente da autorità scolastiche superiori e servizi sociali dell’ASL per “monitorare” i comportamenti “sospetti” dei bambini, sintomatici di possibili abnormi comportamenti delle famiglie.
In alcuni momenti, a Marcello pareva di essere soltanto una rotellina dell’ingranaggio.
Sapeva riconoscere fin troppo bene una richiesta d’aiuto da parte di un bambino e per questo era allergico alle campagne “ a tappeto” dove l’obiettivo del progetto era di scovare un numero minimo di situazioni “difficili”.
Per non parlare dei giudizi valutativi: quello che, per un bambino, veniva partorito in prima
elementare arrivava, in fotocopia, spesso e volentieri, fino alla terza media.
Insomma, vi era tutta una serie di protocolli e consuetudini che gli stavano stretti, soprattutto
quando pensava al motivo per cui si era convinto ad intraprendere gli studi che aveva intrapreso ed il lavoro che aveva scelto e trovato: suscitare nei bambini il desiderio della conoscenza e provare a dar loro gli strumenti per soddisfare questo bisogno.
Si accorse che, invece, il sistema-scuola tendeva, prima di tutto, a riprodurre se stesso, anche
adattandosi al nuovo, ma sempre per riprodurre se stesso.
E si chiedeva continuamente: “Qual è il segreto per far scattare la molla di ‘sto benedetto desiderio di conoscenza?”
La genetica e la volontà erano argomenti che non gli bastavano.
Dove si nascondeva la vera molla ?
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Mariella, nel 1989, si era trovata senza lavoro.
La piccola fabbrica metalmeccanica dove, come impiegata, curava la contabilità, aveva chiuso.
A trentasette anni, con due figli, uno dei quali, finite le medie, era apprendista idraulico, dopo aver cercato, per sei mesi, nuove occupazioni, aveva deciso infine di non insistere.
I redditi del marito e del figlio grande, oltre alla proprietà della casa in cui vivevano, glielo
consentirono.
La cura del sistema-famiglia portava via quasi tutta la giornata.
A Mariella, però, sembrò indispensabile anche trovare uno spazio nel quale mettere a frutto la sua capacità intellettuale.
Nel quartiere in cui abitava, alcuni suoi coetanei avevano aperto, da tempo, un centro culturale che rivolgeva il suo fare alle diverse problematiche degli abitanti del paese, dalla salute alla vivibilità dell’ambiente, dall’istruzione degli adulti all’aiuto scolastico di bambini e ragazzi.
Il Centro era funzionante da diversi anni, Mariella ne aveva presente vagamente le attività, anche se solo per la conoscenza personale con alcuni dei promotori, suoi ex compagni di classe.
Sapeva che tutti coloro che partecipavano non ricevevano alcun compenso e che le attività “di
servizio” non comportavano alcun costo per coloro che ne beneficiavano.
Si offrì di collaborare, per due pomeriggi la settimana, al doposcuola della seconda media.
C’erano, compresa lei, tre adulti e sette ragazzi.
L’immagine che si era fatta del suo servizio era di un volontariato attraverso il quale porgeva il
suo sapere a poveri bambini che, essendo meno dotati di altri, si rivolgevano a lei con riconoscenza ed ascoltavano, attenti, tutto ciò che veniva loro spiegato.
Ben presto si accorse che nessuno di questi pensieri collimava con la realtà.
Intanto il suo sapere non coincideva più, o soltanto lontanamente, con il sapere presentato dalla scuola a queste nuove generazioni.
“Ma la prof. vuole che diciamo…” si sentiva ripetere continuamente.
Tutti i compiti erano un rispondere a questionari, un completare frasi, un riempire puntini di
sospensione.
Quando provava a far comunicare i ragazzi su di un qualunque argomento tramite un discorso
compiuto veniva immediatamente stoppata da un “ Ma le verifiche non si fanno così !” o da un
“Perché dobbiamo dire tutto e non solo rispondere a quello che ci chiedono?”
Ai ragazzini, comunque, interessava pochissimo, se non nulla, imparare gli argomenti proposti: il loro problema era di ottenere il massimo risultato con sforzo uguale a zero; quindi copiavano, le chiedevano di fare i compiti per loro, attivavano il cervello solo per studiare come evitare di attivare il cervello.
Il rapporto tra loro durante le due ore di doposcuola era sempre conflittuale: dispetti, dispettucci, testa apparentemente altrove.
Dopo meno di due mesi la domanda che avrebbe voluto rivolgere ai ragazzi, che la tormentava, cheaveva sempre lì pronta sulla punta della lingua e che, però, si tratteneva a pronunciare era:
“Ma se non ve ne frega niente perché venite qui ?”
Non la esprimeva perché temeva che, veramente, non sarebbero venuti più.
Si dovette ricredere, dunque, anche sul concetto di volontariato; il suo fare non poteva più essere semplicemente finalizzato alla riuscita scolastica dei ragazzi, men che meno un supporto alla scuola.
L’unico senso che poteva avere era quello di una battaglia per far nascere, nei ragazzi stessi, quel minimo benedetto (ancora lui) desiderio di conoscenza che, non si capiva, se non avevano mai avuto o se, in loro, fosse stato distrutto dalla scuola, dalle pulsioni dell’età o da tutte e due le coseinsieme.
Quindi non c’era proprio nessun volontariato: c’era solo la lotta per il sapere contro le realtà che soffocavano il piacere di sapere.
Capì che essere d’aiuto ai ragazzi comportava il combattere contro quello che avevano in testa, ma stando dalla loro parte, senza se e senza ma, e facendoglielo capire.
In realtà, essi l’avevano capito fin troppo bene.
Come mai, altrimenti, continuavano a venire se non per il fatto che lì nessuno li giudicava e per il fatto che venivano presi per quello che erano e non valutati per il loro profitto o per il loro
comportamento ?
Mariella dedicò tutti i successivi anni della sua vita a quel tipo di intervento, entrando in relazione con diverse decine di bambini e ragazzi, riuscendo a comunicare con alcuni e non riuscendo a comunicare con altri, ad essere accettata da alcuni e non accettata da altri.

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Nel 1999, Donato, che Mariella aveva seguito nel periodo delle medie, decise, a ventidue anni,
di voler prendere la patente.
Aveva terminato a fatica la scuola dell’obbligo, segnato fin dai primi anni come soggetto dal quoziente intellettivo inferiore alla norma, lento nella comprensione e nei riflessi.
Dopo la terza media fu inviato ad un Istituto diurno per ragazzi con leggeri handicap psichici.
Rimase parcheggiato lì fino a diciotto anni, poi restò a casa, davanti alla televisione.
Aveva, però, il chiodo fisso della patente di guida.
E si rivolse a Mariella per prepararsi alla sfida della sua vita.
Cercò di non diffondere la notizia ma, si sa, la fama ha le ali ai piedi ed il tam-tam sparse la novella tra i compaesani.
Il sarcasmo si sprecò.
“Donato vuol prendere la patente!”
“Si salvi chi può! “
“Donato vuol prendere la patente?”
“Non ci riuscirà nemmeno tra dieci anni!”
“Donato all’esame di guida?"
“Vogliamo vedere la faccia dell’esaminatore!”

… e così via.

Anche per Mariella era la sfida della vita.
Sfida che, ovviamente,alla fine, risultò vittoriosa.
Donato superò l’esame di teoria al secondo tentativo e quello di guida al primo.
Appena lo seppe, Mariella non trattenne le lacrime.
La motivazione come prima molla della conoscenza.
Non ci sono cretini quando si è alla ricerca di qualcosa di importante.

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Sempre nel 1999, Marcello, finalmente laureatosi,entrò a far parte nel corpo-docenti di una
scuola media.
E ritrovò, centuplicati, i problemi ed i difetti incontrati nella scuola elementare, con l’aggiunta di qualche ulteriore sgradita sorpresa.
Esisteva, nel pianeta scuola-media, una gerarchia ben più marcata che nelle elementari.: il Preside, gli insegnanti delle materie più importanti (lettere e matematica), gli insegnanti delle altre materie, il personale di segreteria, il personale di servizio, i genitori e , buoni ultimi, i ragazzi.
L’insegnante che non riusciva a tener buono uno scolaro lo spediva dal suo superiore, il Preside, il genitore che veniva convocato a scuola doveva, poi, prendere “provvedimenti” verso il figlio, il Preside vietava le “pance nude”, il bidello portava il caffè e via di questo passo.
Inoltre, rispetto all’ambiente in cui aveva operato precedentemente, Marcello notò una minor
comunicazione tra insegnanti anche riguardo all’apprendimento del singolo ragazzo.
Lo scolaro era giudicato prima di tutto sul comportamento che, se censurabile, aveva la sua origine, ovviamente, negli “errori educativi” della famiglia prima che in ogni altra cosa ; poi era giudicato sul profitto che, se insufficiente, aveva la sua origine esclusivamente nella svogliatezza del ragazzo.
Ogniqualvolta Marcello provava a porre la questione della “molla” , del ri-suscitare il desiderio
della conoscenza, veniva guardato con compassione dai colleghi più scafati, quelli che …”se non ti fai rispettare ti sbranano”.
C’era una muraglia pressoché invalicabile tra ragazzi e professori, una muraglia di reciproca
incomprensione, di paure, tra chi temeva di essere continuamente punito e chi temeva che, non punendo a sufficienza, si sarebbe fatto mettere i piedi in testa dall’ultima generazione di bulletti.
Mariella, periodicamente, quando, o accompagnando una mamma, oppure anche da sola, andavaa perorare la causa di qualcuno dei ragazzini che partecipavano al suo doposcuola, veniva vista e “collocata” in una posizione gerarchica a metà strada tra il personale di segreteria ed il personale di servizio, un po’ meno dei primi, un po’ più dei secondi.
Quello che non riusciva mai a comunicare, o meglio, quello su cui, chi l’ascoltava, metteva subito i tappi alle orecchie, erano le proposte pratiche per …
Come quando un non-medico dice una cosa sensata ad un medico: se non hai la scienza (ed il potere della scienza) non puoi dire nessuna cosa giusta o sensata; viene smontata o, più spesso, non ascoltata neppure se sacrosanta.
Nonostante si fosse presentata a scuola già un gran numero di volte, a Mariella prendevano sempre crampi allo stomaco, ma non si scoraggiava e, ripetutamente, ci tornava.
Marcello osservava quella donna che metteva il naso in un mondo non suo e cercò di capire quali fossero le motivazioni di lei, ed anche il suo “segreto”.

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Donato era iscritto alle liste speciali del collocamento.
La sua parziale invalidità gli consentì di essere chiamato, per diversi anni,a svolgere le funzioni di bidello nella scuola media dove lavorava Marcello.
Tutti gli volevano bene ma pochi si mettevano a parlare seriamente con lui: lo consideravano un tontolone, un povero ragazzo che, per fortuna, aveva trovato un lavoro, anche se stagionale e a tempo determinato.
Marcello, viceversa, gli faceva domande su come fosse riuscito ad arrivare lì cosicché Donato gli
raccontò di tutta la sua storia scolastica e dell’esperienza della patente, gli parlò di quella donna che lui, Marcello, non aveva il coraggio di fermare.
Alla fine di giugno del 2006 arrivò a Donato la notizia che, dal successivo anno scolastico, sarebbe stato assunto a tempo indeterminato.
Lo comunicò immediatamente a Marcello invitandolo, per la domenica successiva, il 7 luglio, a
festeggiare l’evento uscendo, in compagnia, a mangiarsi una bella pizza.
Quella sera non fu soltanto una sera da pizza: fu una sera di birre e clacson, come ventiquattro
anni prima.
L’euforia della notte, una notte nella quale di tutto si parlava fuorché di argomenti seri, fece
sbottonare a Donato un’ulteriore confidenza sulla sua vita e sul perché si fosse rivolto a Mariella quando aveva deciso di prendere la patente.
Spiegò che, negli anni del doposcuola, il calore che gli avevano trasmesso Mariella e gli altri
compagni del Centro presentava una caratteristica particolare: quella che i bambini non venivano né premiati né puniti.
Allora non l’aveva capito, se n’era accorto quando, negli anni della frequenza in Istituto, nonostante la “comprensione” nei suoi confronti, veniva gratificato solo quando riusciva nei compiti e ripreso quando non riusciva.
Marcello gli chiese di presentargli Mariella.
E Marcello, senza lasciare il suo lavoro ( i tempi non lo permettevano di certo) andò a cercare, nei suoi pomeriggi, l’avventura di relazioni libere dal premiare e dal punire, libere dalle gerarchie del sopra e del sotto.

Dediche e ringraziamenti: a Sandra , ai compagni dei Centri di Cultura Popolare di Milano e provincia.

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martedì 21 ottobre 2008

In Cammino con Gesù 30-10-08

ULTIMI GIORNI PER PARTECIPARE

al Concorso In Cammino con Gesù…

Vi invitiamo a partecipare e Vi preghiamo di diffondere a tutti i vostri
contatti la nostra iniziativa,

Carissimi saluti.

PARROCCHIA DI SAN MARTINO A VADO – DIOCESI DI FIESOLE

V RASSEGNA DI TESTIMONIANZE LETTERARIE
In Cammino con Gesù...

TESTIMONIANZE DI ESPERIENZE DI FEDE
IN FORMA DI RACCONTO O DI PREGHIERA


SEZIONE SITI INTERNET PARROCCHIALI
INVIA LA SEGNALAZIONE DEL SITO DELLA TUA PARROCCHIA !!

TEMA SPECIFICO: La famiglia che porta a Gesù

SCADENZA INVIO OPERE: 30/10/2008

PER INFORMAZIONI E BANDO: www.parrocchiastrada.net

Ricordando don Oreste Benzi

(cliccare sull'immagine per ingrandirla)

martedì 14 ottobre 2008

Su «Il giorno di Lazzaro» di Mariagloria Patuzzo

recensione di Arianna Ioli, pubblicata su Exitime n. 12, ottobre 2008




scheda del libro qui

Francesca a Santarcangelo




“Amore amor amornò”, questo il titolo del nuovo spettacolo ideato e diretto da Liana Mussoni per la Compagnia Teatro del Cartoccio che andrà in scena alla Sala Il Lavatoio di Santarcangelo, il 15 e 16 novembre 2008 alle ore 21,15.
L’ingresso è libero, ma la prenotazione è obbligatoria presso la Proloco (numero telefonico 0541/624270).
Questo lavoro, sostenuto dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Santarcangelo e dall’Assessorato alle Pari Opportunità della Provincia di Rimini, vuole essere prima di tutto un omaggio ad un personaggio santarcangiolese di grande spessore culturale e artistico: il maestro Flavio Nicolini, regista, sceneggiatore, pittore, scrittore, autore cinematografico e televisivo.
Si tratta infatti di una lettura scenico-musicale, ispirata a “Francesca” il romanzo che Flavio Nicolini ha dedicato ai Malatesta e in particolare alla figura descritta in maniera originale e non convenzionale, di Francesca da Rimini. A dar corpo e voce al racconto, saranno gli attori: Angelo Trezza, Attilia Pagliarani, Francesca Mearini, Liana Mussoni, Lucia Ferrini, Marco Giorgi, Massimo Ricci e Nevio Ronci.
In scena, la vicenda che viene raccontata, è immersa in un delicato gioco di luci e di atmosfere pittoriche, nonché dalla suggestiva tessitura sonora effettuata dal vivo dal musicista argentino Hilario Baggini che con svariati e insoliti strumenti musicali rende vivi i sentimenti e le emozioni della storia.
La musica è in primo piano anche nel romanzo che infatti inizia proprio con un canto di Francesca, una filastrocca, che mi ha subito conquistato e che ho scelto come titolo dello spettacolo: “Amore amor amornò”.
Questo ritornello ,apparentemente privo di senso, ma che porta già in sé un tragico presagio di dolore e amore negato, è diventato per me il motivo ritornante, la vibrazione di fondo sulla quale imbastire la storia di questa ragazza adolescente descritta con grande affetto e umanità, così bella nella sua ingenua purezza di sguardi sull’amore, nel suo coraggio e nella sua determinazione veramente commoventi che la portano verso il suo bisogno di verità senza cedere all’inganno e alla falsità di un mondo maschile guidato da logiche di potere e di morte.
Una storia quindi che rimane molto moderna ed attuale perché incentrata sui sentimenti e le passioni che danno vita e vivacità ad ogni scena, presenti perfino nel paesaggio, negli animali e nella natura, descritti da Flavio con una sapienza caleidoscopica: diventano colori, suoni, profumi,musica, immagini in movimento.
Sembra proprio di essere davanti a un film che ci fa riflettere sulla nostra storia e sulla complessità della vita che si rinnova incessantemente di fronte al mistero e alla solitudine del mare che come un basso continuo fa da sfondo all’inevitabilità del destino.

Liana Mussoni


Flavio Nicolini e Liana Mussoni

giovedì 9 ottobre 2008

Fra Turchia e Balcani

2 nuovi racconti di Marco Bottoni

Trecentosettantasette parole compreso il titolo. In coda.


- Guarda!
- Com’è bello! L’hai fatto tu?
- Sì, ho fatto tutto io, anche le montagne!
- Ma che bravo! Anche le casette?
- Sì!
- Come sono belle, così piccole!
- C’è anche il fiume, con il ponte e gli alberi lungo le rive!
- E quelli là, così piccoli?
- Sono i pastori! Vedi quante pecore ci sono? Adesso stanno dormendo, ma poi si svegliano!
- È davvero bellissimo!
- E c’è anche la piazza del mercato, con la fontana e il pozzo!
- Con tutte quelle lucine, poi! Ci hai messo le lampadine?
- No, non sono lampade; la corrente elettrica non c’è: sono candele!
- Davvero notevole! E quanto tempo ci hai messo per farlo?
- Poco, davvero: una settimana.
- È una cosa meravigliosa! Davvero non credevo che tu, così piccolo…
- Attenta!
- Scusami…
- Scusami niente, accidenti a te! Hai visto cosa hai fatto?
- Non l’ho fatto apposta… scusami, sono scivolata…
- Hai distrutto tutto!
- Stavo scivolando e per non cadere… devo averlo un po’ urtato…
- L’hai rotto!
- No, non l’ho rotto… sì, è un po’ danneggiato, ma vedrai che si ripara…
- Si ripara, si ripara! Lo dici tu che si ripara! Ormai è rotto!
- Ma con un po’ di pazienza si aggiusta… vedrai! Non è successo niente di irreparabile!
- Ma … era il mio!
- Su, non piangere adesso, che piangendo non si risolve nulla.
- Ma…
- Niente ma. Se fai così è peggio… che lo bagni, anche!
- Ma… l’avevo fatto io!


Una violenta scossa di terremoto è stata registrata, nella notte, nella regione montuosa dell’Anatolia orientale, con epicentro a circa 350 chilometri dalla capitale Ankara.
Il sisma, la cui magnitudo è stata valutata attorno ai 6,5 gradi della scala Richter, ha raso al suolo numerosi villaggi di pastori che sorgevano su un area di circa millecinquecento chilometri quadrati.
Non è stato ancora possibile fare un bilancio, anche approssimativo, delle vittime che si stima siano comunque numerosissime, in quanto la popolazione è stata sorpresa nel sonno.
I soccorsi, già resi difficili dalla particolare situazione geografica della zona colpita, che è impervia e montuosa, sono ostacolati dalle avverse condizioni meteorologiche; su tutta l’area interessata dal sisma stanno infatti cadendo violente piogge.



Duecentocinquattro parole compreso il titolo. In coda.


- Uno. Orizzontale. È il Primo Cittadino.
- Sindaco.
- Uno verticale. Indossa cotta e stola.
- Sacerdote.
- Sì, Sacerdote. Ci sta. Un altro; lo vuoi orizzontale o verticale?
- Verticale. Due.
- Sono uguali in tutto e per tutto.
- Gemelli. Un altro; stavolta orizzontale.
- Orizzontale… orizzontale… vediamo un po’… sì, questo: ha le dita sporche d’inchiostro.
- Tipografo. Un altro, verticale.
- Indossa il camice bianco ma non è ancora Dottore.
- Tirocinante. Ci sta?
- No, verticale non ci sta, troppo lungo. Prova orizzontale.
- Non ci sta neanche orizzontale. Allora prova questo: ha due stelle sulla spallina.
- Tenente.
- Sei sicuro?
- Sì, sono sicuro. È tenente.
- Allora mettilo. Tenente. A che punto siamo?
- È quasi finito. Mancano due verticali e due orizzontali e poi chiudiamo.
- Dài che finiamo allora. Ha più di ottant’anni.
- Ottuagenario.
- Orizzontale.
- Orizzontale dove?
- In basso, l’ultimo in basso. A destra.
- Sì, ci sta. Adesso questo: è piccolo anche se è adulto.
- Nano.
- Giusto giusto, nano. E con questo abbiamo finito.
- Sì, senza lasciare nemmeno uno spazio vuoto.
- Bel lavoro!
- Ben fatto!


Ennesimo macabro ritrovamento nelle provincie Balcaniche teatro del terribile scontro etnico tra serbi e croati. Rinvenuta alla periferia di K., quindici chilometri a sud di Mostar, una fossa comune all’interno ella quale sono stati trovati i corpi di 254 persone, praticamente tutti gli abitanti del piccolo villaggio; tra questi quelli di due bimbi piccolissimi, entrambi maschi, probabilmente fratelli gemelli.

mercoledì 8 ottobre 2008

Su Pubblica con noi 2007



recensione di Narda Fattori

Pubblica con noi 2007 è la raccolta antologica dei vincitori di un concorso che riguarda sia la prosa che la poesia. Il testo ospita i primi tre classificati di ogni sezione.
Recensire una antologia è difficilissimo, di solito si finisce per esercitare una critica sugli estensori, in questo caso sulla giuria del premio. Io vorrei osare qualcosa di più perché l’antologia offre sprazzi di grande prosa e di grande poesia, talvolta in contaminazione fruttifera.
Il libro si apre con un racconto lungo di Camilla Jagna Ugolini Mecca dal titolo disorientante: Il paradiso è un cul di sac.
Di solito noi traduciamo questa espressione francese con una valenza negativa, come qualcosa che imprigiona e soffoca, come una situazione da cui non si può sfuggire e che esercita un potere limitativo delle nostre potenzialità. Con una prosa finemente introspettiva, ferma, mai banale, anzi spiazzante in alcune affermazioni, la scrittrice ci racconta di due solitudini che hanno convissuto e condiviso l’amore ma che, per immaturità o per paura o per diffidenza, non hanno saputo far crescere questo amore, che si è sfilacciato costringendoli a separarsi, non a cessare d’amarsi.
I due protagonisti sono nostri contemporanei che recano nei pensieri e nei gesti l’amarezza e la delusione di coloro che hanno creduto nella fantasia al potere che invece non ci è mai andata; entrambi hanno retroterra borghese, rassicurante come una prigione, dalla quale entrambi sono sfuggiti, lui a inseguire il sogno della scrittura, lei quello della verità e dell’amore.
È il protagonista maschile che parla, ritornato sui suoi passi, in una Parigi che riconosciamo da qualche accenno alle vie, dalla frequentazione al bistrot; ripigliato fiato e coraggio rincontra la sua ex compagna e non riesce a esprimerle l’inquietudine che lo divora, la motivazione più vera che l’ha riportato in quella città. Resta nuovamente solo, con pensieri amari, con l’impotenza di riconoscersi e di donarsi; sarà ancora una volta l’oblatività della donna, che al suo nuovo richiamo, gli prende la mano perché ha già capito e questo consente a lui di rivelarsi e di riconoscere che il cul de sac temuto è il suo paradiso.
La scrittura è colta e lieve; non può rivelare tutto perché vive nei protagonisti un indicibile di cui sono consapevoli. Le parole fanno lievitare il racconto fino al finale, non preparato dalle pagine precedenti; in questo caso l’happy end è inatteso e con altrettanta naturalezza avrebbe potuto diventare un finale aperto, e addirittura sancire l’impossibilità di un incontro ri-fondante fra i protagonisti.

Il lavoro del luogo è il titolo del poemetto su cui esercita la sua scrittura e la sua visione del mondo Giovanni Turra Zan. È una lettura solo apparentemente facile, di presa immediata ma se si colgono i vertiginosi salti culturali spazio-temporali quasi ci si spaurisce e il filo della lettura si spariglia, le visioni si sovrappongono e nessuna ha la forza della testimonianza e insieme e consapevolmente conducono ad una esperienza tragica del vissuto: la finitezza, il male, pensiero stretto, giogo, la solitudine, l’impossibilità dell’amore… Potrei continuare in questo elenco di parole che appartengono al campo semantico del dolore e dell’imperfetto: “… che sopra alla testa ci sfugge / non quello che si sa, sfugge quello che / le ossa non trattengono; basta una lastra, / la dogana delle voci.”
Questo poemetto di forte impatto emotivo e culturale urla senza enfasi che siamo al capolinea dove confluiscono tutti gli intrecci, dove si estirpa ogni possibilità di essere diversi da quello che si appare perché la solitudine marcia anche sui morti e nessuno risponde ai richiami, e si somministra il calvario quasi fosse un farmaco, ma forse solo si giunge alla stasi, un provvisorio stato borderline.
Questa poesia secca e dura, conscia e consapevole non si lascia imbrigliare in nessuna corrente neo-ermetica o narrativa o avanguardista; si nutre di sé stessa, non s’appiglia a nessuno, non gioca con la retorica, è nuda, autoriflettente e così chiusa all’apertura da irritare (è il panico che alimenta). Vorrei concludere citando i versi che con i quali si conclude il poemetto: “… E se vedi / lampade proiettare l’ombra ti fai serpe / e faina per cancellare il nome dall’elenco / degli esistenti, per lasciare poche tracce / scarseggiando un asse di risposte sulle leggi / della quiete.”

Prosa e poesia nell’antologia sono intercalate così da consentire un respiro che si contrae e si dilata, come nella naturalità del suo farsi.
Il racconto di Oreste Bonvicini, La misura quotidiana delle parole, ci riporta a qualcosa di meno angoscioso: il viaggio, grande metafora della vita, il viaggio che si compie, quello che si rifiuta, quello che si compie attorno alla propria scrivania.
Il viaggio è comunque sempre dentro sé stessi anche se si compie in Patagonia (Chatwin), qui incontriamo gli elementi elementari della Terra: l’acqua, la sorgente della vita che più non parla perché i suoi dèi sono scomparsi; occorre allora tornare ad una fede per scacciare la paura, dell’acqua, della sua scomparsa, della sua irritazione.
Gli altri elementi che alimentano e vivificano il viaggio e l’essere all’interno di esso, sono anche cose da nulla, come il profumo dei tigli, o grandi esperienze come il Coast to Coast dove il paesaggio appena accennato è un pretesto per l’incontro dei pensieri e delle senzazioni dove giacevano dormienti e già per il risveglio si rivelano trasformazione.
Ma ci sono anche attese deluse, linee d’ombra, nei mesi, nei luoghi e la laguna può essere più grigia dei grigi; perfino i fuochi di Ferragosto si tingono di lontananza, di nebbia.
Ascensioni, treni, notti , colline, rumori… scoperchiano ciò che già abbiamo dentro di noi, consentono di vedere con maggiore chiarezza le emozioni, le paure, il bisogno di appigli,…
Significative sono le parole che riporto da L’odore del fiume: “… Ma se tutto appartiene all’infinito, tutto è un divenire / che ritornerà nell’ognidove, nel tempo senza misura.”
Non ho accennato allo stile, tra prosa e poesia, prosa che ambisce accostarsi alla poesia e poesia che si affranca da ogni sudditanza facendosi excipit della prosa.
Sono molte “le cartoline” di Bonvicini perciò credo di trarre due perle esaustive per dire a quali conclusioni giunge (o non giunge) lo scrittore: “Ora so che inseguire un sogno non è mirare all’eternità” e “… ciò che l’occhio indaga, nell’animo subito raggruma.”

A questa lettura gradevole e di non ingrato impegno, segue il poema: Padri della terra di Vincenzo D’Alessio di cui ho già avuto il piacere di scrivere anche perché, al di là del risultato meramente critico, chiniamo il capo davanti una voce orgogliosa e pietosa per un Sud bellissimo nei suoi paesaggi, nelle sue donne e così ingrato verso i suoi abitanti. Il poema di D’Alessio mi fa pensare con pena sempre più esacerbata ai luoghi ancora più a Sud, e quindi più a Sud ancora. Che i potenti siano illuminati perché la passione civile e la pietà non basta: “I versi sono fulmini / di un lampo che abbaglia / l’anima della terra / tu sola mia speranza / scrivi la vita.”

Giuseppe Acconcia è l’autore di Un inverno di due giorni e altri racconti, ancora prosa, complessa e fluida, come dice nella presentazione Stefano Martello, aggiungerei magmatica e urgente, sovrabbondante. È una prosa che accoglie nello sguardo l’esperienza per trarne il significato che cela e che svela. Il migrante che sbarca beve le immagini, sente il dolore della perdita e l’estraneità di lunghi elenchi di merci, di insegne, di un italiano che si impara ma non si capisce, ottuso e ripetitivo. Ogni sogno si infrange contro la realtà brutale di un lavoro che non c’è, di un amore, di una casa che non esistono, sopravvivenza demandata alla Caritas, la certezza di vivere una vita senza… e allora forse è meglio morire. Il racconto che riguarda gli extraterrestri mi sembra il più coeso perché non cerca scappatoie in prolessi e analessi, ma narra di fatti su un asse temporale unico. Gli extraterrestri che sembrano aver trovato la strada per una serena convivenza attraverso una comune di pari, non suscitano alcun interesse, sono stranieri , estranei quindi indegni di soffermarsi sulla loro cultura. Ancora una volta riconosciamo l’interesse dello scrittore per le relazioni e per l’incapacità di accogliere l’altro, anzi come Cronos, il tempo, divora i suoi figli, siamo ridotti ad ologrammi, parvenze. Ma Acconcia procede oltre nel leggere le capacità autodistruttive dell’uomo: anche quando la Terra si sgretola e si fa poltiglia di fango, riescono a pensare solo a limitare le nascite. Quando parla di quotidianità e di esperienze che gli sono familiari, Acconcia riesce a dare alla scrittura forza e chiarezza; si spoglia delle sovrastrutture letterarie non perfettamente entrate ancora nel suo patrimonio di giovanissimo scrittore e narra con scioltezza, non annoda la scrittura in acconci presunti stilemi. I suoi protagonisti sono emarginati, migranti, precari, o sognatori, creature inverosimili che traggono dalla fantasia l’unico nutrimento.

Nuovamente incontriamo la poesia, stavolta di Francesco Accattoli in Un tramonto sommario, che trovo alta nella sua apparente semplicità. Essa celebra il mondo, l’essere al mondo, celebra la vita, anche di poco conto, anche non laureata, come può esserlo un gregge o una quercia o delle ginocchia sbucciate, “possa io vivere in vere parole / l’adunarsi di lumi e di lune / attorno ai tavoli dei caffè”: questa è una vera e propria dichiarazione di poetica a cui segue una dichiarazione di ermeneutica: man mano che l’uomo si serra, si chiude, assomma i chiavistelli, il mondo s’allontana, se ne va via perché questa creatura non gli appartiene più. Malgrado i suoi sforzi l’uomo non sa, non vuole, non riesce ad allontanare il dolore che potrebbe farsi tenero, quasi trait-d’union fra simili nobilitati dallo stesso dolore. L’estroiettazione di cui parla a commento iniziale Massimo Pasqualone è lo sguardo che riconosce sé stesso nell’altro, negli accadimenti e va via via denudandosi di finterie e di apparenze per incontrare l’intimità del proprio sentire.
Non ci sono mai cadute nel banale, nel linguaggio “poetese” così abbarbicato al riascolto, al dire ben acconcio, nelle poesie di Accattoli, a cui auguro di conservare un’ispirazione così avvertita e una voce così ben accordata: “S’impara bene dalle nonne, resta la polpa, / il Pater Ave e Gloria, la paura / dissipata, / il segnale è dentro il corpo, // come a dire ora è già ora; / eppure avrebbe un senso / un poco di neve in un bicchiere.”
Non dobbiamo dunque aspettarci un ottimismo d’accatto, ma il desiderio e la consapevolezza che le contraddizioni e i mali sono ineluttabili ma rendono quasi più degna la vita, meritori lo scamparne, vincenti l’affrontarli dentro lo strepito allegro della folla lungo un viale.

Chiudono l’antologia le poesie di Rita Giurastante, la cui raccolta porta il titolo Schegge di fuoco. Il climax è più quieto, i versi si distendono in grafie chiare e definitive. Sono poesie costruite sull’esperienza personale che si protendono verso la metafora per mascherare l’urgenza di un male o di un bene, di un sentimento che il pudore vorrebbe un poco celato. Incontriamo versi orecchiati dal linguaggio quotidiano e improvvisi erte poetiche: ”Sull’avaro terreno sassoso / spuntano timide piante. / Da stratega esperto in difesa, / il leccio si espande in larghezza /…: sono questi i versi che ci fanno cogliere la poesia e promettono che il desiderio di farsi non sia deluso.

lunedì 6 ottobre 2008

venerdì 3 ottobre 2008

E' nato Il resto (parziale della storia)

dal sito www.chiaradeluca.com

01/10/2008

E due !

È nato Il resto (parziale della storia),

a cura di Carla De Angelis e Stefano Martello

con un mio contributo di vita e poesia

Clicca sulla cover per leggere la presentazione

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