martedì 30 marzo 2010

Questo non è un pesce

Altra bella serata proprio il 1° aprile. Si. Non si poteva fare in una data diversa!!!
Ce ne saranno delle belle. Presentazioni del nuovo grandioso fotoromanzo storico-demenziale di Baradacomix (clicca qui per vedere il book trailer)..
proiezioni di Voiazer (clicca qui per qualche anteprima) con Mister Giacobbo che realizzerà addirittura una puntata in diretta dalla libreria...  
fumettisti che partecipano al nuovo reality creato apposta per loro (anche l'unico direi.... ) FUMETTACCI TUA!!!
Per capire anche come si estinsero i dinosauri avremo un ospite davvero speciale (che ancora deve confermare la sua presenza....)

Una serata che pullula di ospiti e sorprese, una serata speciale, una serata davvero piena, una serata che.....   che ci sarà....    QUESTO NON E' UN PESCE.


QUESTO NON E' UN PESCE
Giovedì 1 Aprile ore 21
In libreria


Quando la realtà supera la realtà! Quando la fantasia supera la fantasia. Quando la realtà supera la fantasia. E ovviamente Quando la fantasia supera la realtà! Sono cose che possono accadere solo il primo di aprile. Ma questo, non è un pesce!

Sarà una serata di quelle che non si dimenticano così facilmente. O magari sì! E allora giù di vitamine e altri composti farmacologici per aumentare la capacità della memoria a lungo termine, almeno di un gigabyte. Tutto questo per dire cosa, esattamente? Che nella serata del primo aprile, presso la libreria Indipendentemente Interno 4, ci sarà la presentazione del fotoromanzo Peplum: L’Impero Trema - I legionari non possono rispondere, di Stefano “Barada” Rossini & Soci, con talk show dal vivo ricco di ospiti eccezionali e momenti incredibili (nelle due foto a fianco potete vedere l'effetto che il fotoromanzo ha avuto su alcuni lettori!)!

Il Peplum racconta la storia poco conosciuta delle vicende di Lucretius, fratello di Giulio Cesare, intenzionato a conquistare tutta la Russia e l’amore di due fanciulle. Spietato, malvagio, ambizioso, Lucretius non si preoccuperà di sacrificare tutti i suoi uomini per raggiungere i suoi scopi! Ma l’amore trionferà. Il fotoromanzo è stato realizzato in oltre un anno di lavoro, tra giorni di riprese, sceneggiatura, effetti speciali e post produzione. Alcune pagine sono già online sul sito www.baradacomix.com

Ma torniamo alla serata del primo aprile. Cominciamo dall’ospite più atteso, forse il vero protagonista della serata, capace di far passare il fotoromanzo in secondo piano: Mister Giacobbo e le mirabolanti inchieste di Voiazer! Dopo la sconvolgente notizia della fine del mondo nel 2013 e la sventata invasione dei termosifoni, il nostro archeologo del mistero non solo presenterà le sue nuove inchieste, ma porterà tutto lo studio di Voiazer all’Interno4 per una puntata dal vivo. Tema: lo scontro di civiltà!
Ancora, seguendo la moda imperante della TV, appuntamento con i reality! Dopo il successo di Fumettacci TUA, andrà in onda la seconda edizione del reality del fumettista con un nuovo disegnatore che rimarrà impegnato tutta la sera a disegnare il fumetto del secolo! E per tutti gli interessati ci saranno le selezioni per la terza edizione!

Non è finita qui! Perché la sera del primo aprile sarà presentato anche un nuovo reality: il reality della boccia! Il primo passo per di ventare eternamente famosi!
Ma è possibile infilare così tante cose in un’ora e mezza?! Certo che sì, basta farlo un po’ alla rinfusa. Altri ospiti a sorpresa faranno capolino nella sala della libreria per commentare il fotoromanzo, le puntate di Voiazer e le altre perle della serata. Ancora non confermato un ospite speciale: Ermione (nella foto in una pausa dalle riprese), il dinosauro protagonista del fotoromanzo “Come si estinsero i dinosauri” ci racconterà la sua versione dell’annosa questione: disegno intelligente o darwinismo? La problematica verrà analizzata sotto una nuova prospettiva: darwinismo intelligente o disegno?

Accorrete numerosi! Tutta la serata sarà in 3D. Sono occasioni che si presentano una sola volta nella vita. Due se siete proprio fortunati, ma non tenterei la fortuna. Così. Parere personale.


Indipendente|mente Interno 4
Libreria, Sala Lettura, Officina Culturale
Dal lunedi al venerdì 15.30 - 20.00 /
sabato dalle 09.30 alle 12.30 e dalle 15.30 alle 20.00
Via Di Duccio, 26 - Rimini
Tel. e fax 0541/784948
Email: indipendentemente@interno4.com
Web: www.indipendente-mente.it
Facebook: Andrea Indipendentemente

sabato 27 marzo 2010

Impegnarsi: per che cosa?

intervento di Rosa Elisa Giangoia al convegno faentino Scrittura e impegno



Per mettere a fuoco la questione del rapporto tra letteratura ed impegno, penso sia utile uno sguardo retrospettivo sulla storia della nostra produzione letteraria in cui l’oscillazione tra l’arte per l’arte e l’arte per la vita è stata costante. La letteratura italiana si apre con la Commedia di Dante, autore impegnato al massimo in un intreccio consequenziale tra politica, morale e teologia con un obiettivo altissimo nei confronti dei suoi lettori, quello cioè di orientarli e guidarli sulla strada della salvezza eterna, tanto che lo studioso danese Olof Lagercrantz nel suo saggio Scrivere come Dio (Marietti, 1983), ha appunto paragonato lo scrivere di Dante a quello biblico, divinamente ispirato, in quanto entrambi finalizzati a far conseguire agli uomini la salvezza eterna. Successivamente con Petrarca la produzione letteraria si è ripiegata sul personale, privilegiando la sfera emotiva e sentimentale, anche se il poeta non ha tralasciato frecciate polemiche contro realtà negative del suo tempo, soprattutto il Papato avignonese, mentre con Boccaccio è iniziata la letteratura di intrattenimento, quello scrivere per dilettare che apre scenari completamente nuovi alla produzione letteraria. L’Umanesimo e il Rinascimento hanno visto da un lato una produzione d’impegno civile (da Bruni a Machiavelli), più legata alle realtà comunali, accanto ad un’altra di intensa elaborazione letteraria con intenti di divertimento e di evasione, da Poliziano ad Ariosto, più legata al mondo delle corti. Con la Controriforma il Tasso si è sentito obbligato ad una produzione letteraria di impegno religioso, morale e politico, contrastante con la liricità della sua natura, che gli ha determinato problemi e anche sofferenze personali. Successivamente con il Barocco e l’Arcadia abbiamo avuto quella lunga stagione di disimpegno della letteratura nei confronti della situazione storico- politica, ben stigmatizzata dal de Sanctis, che ha visto nell’opera di Giuseppe Parini un ritorno a quella coscienza, di matrice illuministica, ma innervata dalla fede cristiana, che ha riportato la realtà della vita all’interno della letteratura. Linea questa che per certi aspetti continua con il Neoclassicismo, soprattutto per il forte peso che in quegli anni hanno avuto anche in Italia la rilettura di Plutarco e la diffusione delle opere di Rousseau. Il vero rinnovamento, riguardo all’impegno in letteratura, è avvenuto con l’Illuminismo milanese dei fratelli Verri e del Beccaria, che ha trovato una sua linea di continuità nel Romanticismo milanese, in cui un recuperato cristianesimo liberale di derivazione francese si è coniugato con l’impegno civile-patriottico risorgimentale, fino a trovare la sua più compiuta espressione con l’opera poetica e narrativa del Manzoni. Esauritasi la tensione politica del Risorgimento con l’Unità d’Italia, la letteratura romantica si ripiega su quei toni languidi e sentimentali del Prati e dell’Aleardi, tanto criticati, per ritrovare un fittizio vigore, tutto letterario, con Carducci e un impegno di tipo sociologico, mutuato dal positivismo e da naturalismo francese, con Capuana e Verga. Ma a prevalere sono ben presto i toni del disimpegno estetizzante di D’Annunzio a cui si affianca ed intreccia la riappropriazione eroico-estetizzante della Storia. Anche Pascoli vive, a questo riguardo, una situazione di duplicità, da un lato ripiegato nel mondo affettivo e campestre di Myricae, dall’altro impegnato a livello civile su suggestioni dell’ideologia socialista e sull’ormai esaurita linea di un patriottismo di maniera. Dopo la breve stagione della contrapposizione tra interventisti ed astensionisti a proposito della partecipazione dell’Italia alla Prima Guerra mondiale, che vede particolarmente attivi i Futuristi, oltre naturalmente a D’Annunzio e alle riviste fiorentine, durante il Ventennio Fascista, al di là della letteratura ufficiale di appoggio al regime, alcuni narratori (Pavese, Vittoriani, Moravia) esprimono una voce critica, mentre la poesia più nuova e consapevole, l’Ermetismo, dopo aver denunciato le atrocità del conflitto mondiale, soprattutto con la voce di Ungaretti, si chiude nella torre d’avorio di una critica non militante, a parte alcune liriche di Montale, che però poco incidono nell’immediato, anche per la loro difficoltà d’interpretazione. La contrapposizione tra impegno e disimpegno del letterato diventa particolarmente viva dopo la caduta del Fascismo e la fine della Seconda Guerra Mondiale, a seguito soprattutto del diffondersi ampiamente in Italia dell’ideologia marxista, grazie anche alla pubblicazione dei Quaderni del carcere di Gramsci. In questi anni del dopoguerra l’arte si fa soprattutto impegnata politicamente e anche la critica letteraria si orienta ad una rilettura di tutta la precedente produzione, esaminata rigorosamente in questa chiave. A collocarsi decisamente su queste posizioni è soprattutto la produzione narrativa, cinematografica e pittorica, mentre la poesia, a seguito anche della presa di posizione di Montale di non voler essere “chierico né rosso né nero”, mantiene una maggiore autonomia, in cui trova posto anche un più insistente impegnarsi, soprattutto a livello di ricerca e di interrogazioni, su tematiche esistenziali, espresso con vigore da Giorgio Caproni. A infrangere questa stagione del predominante Neorealismo, in cui la produzione è fortemente segnata dall’ideologia e anche dal sostegno del PCI, interviene la Neoavanguardia che, pur collocandosi nello stesso ambito ideologico, opera però un forte rinnovamento degli strumenti espressivi, mettendo in crisi  lo stretto legame che si era venuto a creare tra l’ideologia marxista e la produzione artistica neorealista. Tra il ’60 e il ’70, anche per il vivacizzarsi dei rapporti internazionali e il maggior dinamismo di idee, la letteratura torna ad aprirsi alle sue varie intrinseche possibilità, a recuperare i filoni storici, psicologici e sentimentali, ad essere libera di impegnarsi o meno, anche in uno stesso autore: emblematico è l’itinerario narrativo di Italo Calvino, che, partito dall’impegno neorealista con i suoi primi romanzi, passa attraverso esperienze di fantasia, di fantascienza e di combinazione narrativa, fino a fare della letteratura un semplice gioco. La narrativa come combinazione e gioco, sull’esempio anche del grande successo avuto da Il nome della rosa (Bompiani, 1980) di Umberto Eco, e la poesia come pura e semplice espressione a livello verbale, con netta prevalenza del significante sul significato, diventano le caratteristiche salienti della produzione letteraria sul finire del secolo scorso. A questo punto la letteratura sembra essere arrivata alla negazione di se stessa, nel momento in cui si riduce ad essere ideologia o esperimento linguistico. A salvarla non è bastata una linea di impegno civile, più saggistico che veramente letterario, con l’intento di denunciare e criticare uno dei più vistosi fenomeni di illegalità del nostro paese, rappresentato dalla mafia, che trova voce da Leonardo Sciascia fino a Gomorra (Mondadori, 2006) di Roberto Saviano. Ora, però, entrando in questo terzo millennio, direi, che guardandoci alle spalle e ripercorrendo la nostra letteratura, confrontandola anche con quella degli altri paesi, europei ed extraeuropei, a cui molto abbiamo dato e che qualcosa ha dato anche a noi, dovremmo ripensare a questa questione dell’impegno in letteratura in termini completamente nuovi che, comunque, sono anche antichi, perché guardano alla vera natura dell’uomo e alla sua più autentica necessità d’espressione e di conoscenza. A questo punto la letteratura va salvata dai suoi intrinsechi rischi che negli ultimi decenni si sono vistosamente manifestati. L’impegno deve essere quindi rivolto alla letteratura stessa, che va preservata dal prevalere in essa dell’ideologia, del sentimentalismo e del gioco formale. Per questo l’impegno deve essere nel rapporto e nel confronto con la realtà. Il testo letterario, in prosa o in poesia, deve confrontarsi con la realtà, ricrearla tramite le parole, fornendo le possibilità di comprenderla ed interpretarla. L’impegno della letteratura deve quindi essere per la verità della vita. Il che vuol anche dire che la vera letteratura va al di là di quella che può essere la casistica o la fenomenologia contingente e cronachistica delle vicende umane, in quanto l’impegno della letteratura non sta nel denunciarle e tentare di risolverle. Indubbiamente occorre anche puntare l’attenzione sul male in quanto tale, su ciò che dà dolore e sofferenza non solo all’uomo, ma al creato tutto, nei cui confronti si deve mirare ad una salvezza che deve essere cosmica, dato che appunto cosmico è il male. Essendo poi il male radicale la morte, la salvezza, che passa anche attraverso la letteratura, deve liberare dalla morte, grazie a nuove, più ampie,  prospettive al di là del contingente. Questo vuol dire che la letteratura deve aprire un mondo davanti al lettore, facendoglielo conoscere nella sua realtà, che vuol dire nella sua esistenza. Ma stigmatizzare il male, non vuol dire escluderlo o espungerlo a livello narrativo, ma piuttosto collocarlo in un’ottica e in una prospettiva di corretta valutazione. In definitiva, la letteratura deve impegnarsi per mettere a nudo l’orrore e far risaltare la grazia e la meraviglia della vita, ponendo nella giusta collocazione la banalità che danna e l’assoluto che salva.




venerdì 26 marzo 2010

Domenica delle Palme e Settimana Santa


Omelia del giorno 28 Marzo 2010





Oggi, Domenica delle Palme, inizia la Settimana, che mette a nudo quanto Dio ci ami: una Settimana, in cui sfilano davanti alla nostra fede i grandi momenti, irripetibili, della vita di Gesù. L'entrata trionfale di Gesù in Gerusalemme, accolto con palme ed acclamato dalla folla è, quasi a confermare la nostra fede, prima del Suo essere annientato dalla Passione e morte in croce, una vera, inaspettata epifania del Cristo, come a ricordare Chi veramente Egli sarà ed è: il Risorto. Così, questa epifania, la racconta l'evangelista Luca:

"Gesù proseguì davanti agli altri salendo verso Gerusalemme. Quando fu vicino a Betfage e Betania, presso il monte detto degli Ulivi, inviò due discepoli dicendo: 'Andate nel villaggio di fronte: entrando, troverete un puledro legato, sul quale nessuno è mai salito; scioglietelo e portatelo qui. E se qualcuno vi chiederà: Perché lo sciogliete? Direte così: il Signore ne ha bisogno'.

Gli inviati andarono e trovarono tutto come aveva detto. Mentre lo scioglievano, i proprietari dissero loro: 'Perché sciogliete il puledro?: Essi risposero: 'Il Signore ne ha bisogno'.

Lo condussero da Gesù e, gettati i loro mantelli sul puledro, vi fecero salire Gesù. Via via che egli avanzava, stendevano i loro mantelli sulla strada. Era ormai vicino alla discesa del monte degli ulivi, quando tutta la folla dei discepoli, esultando, cominciò a lodare Dio a gran voce, per tutti i prodigi che avevano veduto dicendo: 'Benedetto Colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in terra, e gloria nel più alto dei cieli!:

Alcuni farisei tra la folla, gli dissero: 'Maestro, rimprovera i tuoi discepoli. Ma egli rispose: `Vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre" (Lc 19, 28-40).

La richiesta di Gesù di procurargli un puledro, per fare una 'strana' entrata in Gerusalemme, deve avere procurato un poco di stupore. Non aveva mai fatto una tale richiesta né un simile gesto. Ma Gesù alla vigilia della 'Sua Pasqua', che diverrà poi la Pasqua del mondo, lo compie. Aveva percorso, da povero, senza alcuna sicurezza umana, tutti i sentieri della Palestina.

In solo tre anni, aveva fatto conoscere, 'gridando dai tetti', la Buona Novella agli uomini, accompagnando la parola di vita con moltissimi segni di amore, rivolti ai malati, ai peccatori. La Sua vita era stata uno 'spaccato' del Cuore del Padre, che si era rivelato con chiarezza a quanti potè avvicinare, senza fare preferenze o distinzioni. Aveva veramente accostato tutti, a cominciare dai poveri, dagli ultimi, ossia da quanti si riconoscevano bisognosi di amore. Si era fatto trovare sulla strada da tutti, indifferenti, deboli, e potenti, poveri e ricchi, amici e nemici, offrendo 'nulla' ed donando tutto', cioè l'esperienza di essere amati con tutta la potenza e fedeltà dell'Amore.

Aveva incontrato consenso e dissenso, l'amicizia di chi voleva seguirlo incondizionatamente e l'odio di chi progettava già la Sua morte. Agli amici, che cercavano - e cercano oggi - la bellezza di amare ed essere amati, aveva chiesto di liberarsi dal ciarpame della vita, offrendo in dono se stessi. Questi a volte si erano entusiasmati di Lui, ma non sempre erano riusciti a capire la durezza, della povertà, da Lui scelta, anche se era ed è il solo terreno fertile per la totale libertà dello spirito e la piena disponibilità a farsi dono. Ma lo avevano amato, e alla fine... seguito.

Non così i suoi nemici, dei quali la povertà di spirito metteva in discussione facili ipocrisie, potenze umane che sono sempre la maschera dell'uomo che vuole primeggiare su tutti, e diventano il vero e grave impedimento per l'incontro con Lui e incapacità a gustare la bellezza del farsi dono e gioia per i fratelli.

Ma in questa Domenica delle Palme, il trionfo di Gesù a dorso di un puledro, lungo la discesa dal monte degli Ulivi, Lo rivelava come il fondamento di tutta la storia dell'uomo.

L'ingresso di Gesù a Gerusalemme è l'aperta sfida alla nostra superbia.

A dorso del puledro, Gesù manifesta tutta la Sua mansuetudine che Lo renderà - e Lo rende ancora oggi - l'Agnello pronto ad essere umiliato, senza opporre resistenza.

E forse in quei momenti lo sguardo del Maestro si sarà posato con dolcezza e commozione su quella folla di poveri in spirito e semplici di cuore', che davano prova di credere nella potenza dell'Amore che, per diventare 'pane di Vita' per gli uomini, doveva diventare povero ed umile, tanto da essere considerato 'un nulla', agli occhi di chi ama la potenza.

Ma negli occhi e nel cuore di Gesù rimanevano e rimangono i Suoi amici, che sempre ignorano lo scherno dei potenti e si fanno illuminare ed esaltare dall'unica e vera forza dell'umiltà e della povertà. I 'grandi e potenti del mondo' possono pensare: quale importanza può avere UNO che si presenta a dorso di un puledro?

Gesù a tutti costoro, ancora oggi, risponde: 'Grideranno le pietre!'.

Quanti discepoli, dopo di Lui, hanno cavalcato e cavalcano il puledro dell'umiltà e della povertà, fino a farsi mettere ai margini della stima umana. Il mondo li ha ritenuti e li considera 'pazzi', per poi forse troppo tardi accorgersi che sono essi, i santi, i cardini della civiltà vera, dell'uomo creato a immagine di Dio e non della superbia umana.

Pensiamo a S. Francesco, S. Vincenzo de' Paoli, Madre Teresa di Calcutta e quanti altri...

"A gridare osanna al figlio di Davide, fu il popolo che Lo riconobbe, i ragazzi, i fanciulli - scrive Paolo VI - D'improvviso si accese la fiamma, il fuoco divampò in tutta quella moltitudine, inducendola finalmente a dare una risposta al diffuso interrogativo: 'Chi era quel Gesù di Nazareth, che aveva predicato per tre anni lungo le vie della Galilea e della Giudea? Quel Gesù che mostrava tanta potenza e tanta umiltà, e del quale si ignorava chi fosse realmente sì che Lo ritenevano uno dei famosi personaggi quali Elia, Geremia o Giovanni Battista? Ebbene nel radioso mattino delle `palme', la coscienza del popolo semplice ebbe grande intuito della realtà. Fu tale l'esplosione che Gesù pianse. Indifferenti a tale pianto i suoi nemici gli chiesero di fare tacere quel popolo.

E invece Gesù, che aveva sempre cercato di velare la Sua personalità, considerò propizio quel momento, perché essa si manifestasse e disse: se non parlassero in questo momento le lingue degli uomini, sarebbero le pietre a proclamare il mio carattere di Mandato del Padre e la Mia Missione salvatrice".

Ogni volta, pellegrino in Terrasanta, percorro la via degli ulivi, che scende fino al Getsemani, penso, come, sia pure tra le acclamazioni della folla, Gesù fosse consapevole di quanto lo attendeva: dall'Ultima Cena, al tradimento di Giuda, alla fuga degli Apostoli, a quel passare da un tribunale all'altro, alla flagellazione, all'incoronazione di spine, alle percosse e agli sputi sul Suo meraviglioso Volto, la via Crucis verso il Calvario e la Crocifissione. Chissà quanto avrà pianto `dentro il cuore'. Ma sapeva che tutto questo era necessario per salvare me, voi, ogni uomo.

E mi nasce una domanda: siamo pronti e capaci di farci prendere per mano dai Misteri di questa Settimana Santa, fino ad asciugare le sue lacrime e vedere spuntare il sorriso di Gesù nella nostra Pasqua?

Ci accompagni quanto Paolo scrisse ai Filippesi:

"Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio lo ha esaltato e gli ha dato un Nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel Nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre". (Fil. 2, 6-11)



IL GIOVEDÌ SANTO ci attende, al mattino, - presenti tutti i nostri sacerdoti, come a celebrare la loro unità insieme al Vescovo - la solenne S. Messa del Crisma, ossia degli oli santi, che serviranno per la nostra crescita cristiana, e, alla sera, la più conosciuta S. Messa 'In Caena Domini', ossia il memoriale della istituzione del Sacramento, mai abbastanza compreso, dell'Eucarestia: 'Prendete e mangiate, questo è il mio Corpo'. Alla fine, la deposizione del SSAno in quello che un tempo chiamavano 'sepolcro' e, in segno di partecipazione al dolore di Gesù, le campane taceranno fino all'alba della Resurrezione.



IL VENERDÌ SANTO è il giorno, per noi cristiani, di intensa partecipazione alla grande sofferenza di Gesù arrestato, flagellato, incoronato di spine, condotto al Calvario e crocifisso: 'Spirò'. Tutti questi Misteri del dolore la Chiesa li celebra nel pomeriggio con la lettura della Passione e Morte, la preghiera universale, per tutti, l'adorazione e il bacio della Croce e la S. Comunione.



IL SABATO SANTO è il giorno del grande silenzio, uniti a Gesù nel sepolcro, e dell'attesa della Sua Resurrezione. Verso mezzanotte con la lettura della Parola, dalle profezie dell'Antico Testamento, ci si prepara alla novità del 'giorno dei giorni, senza fine' ossia la festa della Resurrezione. Per chi di noi professa una fede sincera e profonda, davvero questa è la Settimana Santa e non può non partecipare ai suoi Misteri.

Ma ne siamo profondamente consapevoli e quindi pronti ad immergerci in questo oceano di Amore che, non solo si celebra, ma si offre a noi come Dono attuale, incredibile, rendendoci partecipi di quella che sarà un giorno la nostra resurrezione e quindi il coronamento della nostra vita di fede?

Dio può tutto, dona Tutto Se Stesso, ma non vuole 'servi', sempre attende la nostra risposta, libera, di figli che Lo amano, per poter effondere in noi la Sua Grazia, i Suoi Doni, lo stesso Spirito di Vita.

Non mi resta che UN AUGURIO per tutti i miei amici: VIVIAMO INTENSAMENTE QUESTA SETTIMANA IN UNIONE DI FEDE E DI AMORE PER UNA VERA PASQUA DI RESURREZIONE.

Ne abbiamo bisogno!


Antonio Riboldi – Vescovo –
Internet: 
http://www.vescovoriboldi.it/
email: riboldi@tin.it

giovedì 25 marzo 2010

La responsabilità della parola


intervento di Carlo Penati al convegno faentino Scrittura e impegno



La parola ci impegna. Nel momento in cui sgorga e si ordina nella composizione del testo ne siamo responsabili. Essa nasce dalla conversazione tra il sé e la storicità in cui siamo immersi con la nostra progettualità, con la nostra ricerca di un posto nel mondo. La poesia è “poietica”, quindi è politica. Eppure la parola è una caduta dell’intenzione che le dà forma, perché non riesce a rappresentare compiutamente il senso o il fiume emotivo che l’hanno generata, è relazione responsabile di cui l’impegno è parte fondante. Per quanto ci si voglia sottrarre, attraverso la parola scritta si resta, consapevolmente o meno, implicati.
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“Come ripeteva Heidegger, la nostra eredità ontologica è il domandare”. Ce lo ricorda George Steiner individuando, in questa radice originaria, un tratto comune e distintivo della cultura europea[1]. Questa competenza – il domandare – se è propria del nostro genoma di cittadini europei, ci pone inevitabilmente nel cuore della ricerca e dell’indagine. Ci rende necessariamente scettici, nel senso etimologico del termine: da skepsis, termine greco che significa “indagare”.
Lo scetticismo della poesia è la condizione dell’impegno: inevitabile la ricerca, inevitabile l’impegno. Ricerca della felicità, se felicità è – come direbbe Salvatore Natoli – trovare il proprio posto nel mondo, il proprio modo di essere, la propria identità.
La poesia  è la forma espressiva che più di ogni altra scherza con l’inconscio, che spiazza, come il sogno, le strutture escludenti del nostro pensiero.

Forse il sonno dà più conoscenza
col sogno
di intere pigne di pagine sapienti [2]

La scrittura, non solo poetica, parla dello scrivente, eleva – come in un bassorilievo - la conoscenza di sé nella relazione, nelle infinite relazioni con il mondo. La scaturigine del verso che affonda nel ventre molle dell’io profondo ne tratteggia - forma pura, innocente nella sua scrittura, o corrotta dai filtri degli apparati valoriali - i moti. La poesia, parlata dall’inconscio, divora in poche lettere composte intenzioni agoniche e tradimenti della volontà.
La poesia si com-pone, mette insieme frammenti del sé in dia-logo, attraverso la parola appunto, con il cosmo. Col dialogo (“attraverso il logos”, che sta al principio di ogni cosa/evento/emozione, perché le cose /eventi/emozioni trovano esistenza e dimora presso di noi quando viene loro dato un nome) si possono ridurre le distanze, intessere relazioni, ri-creare continuamente vita; mentre il dia-ballo (“ciò che disunisce”, “mette male tra due”, “induce in errore”, “contrappone”, e quindi il divisore, il diavolo) riduce gli spazi di comunità, di reciprocità, di fiducia.
Il significante prossimo alla nostra identità ci rivela, pur nel gioco del comporre e ricomporre il composto, l’intenzione più autentica, più vicina all’essente – direbbe ancora Heidegger –, al nostro modo di abitare il mondo.
In questa funzione epifanica la scrittura ci appalesa. Sia che il verso sgorghi pura forma dell’io profondo, sia che il cesello del poeta lo conformi e modelli a un’intenzione artefatta, la scrittura inevitabilmente parla di noi e delle infinite – direbbe Bateson - “danze delle relazioni” di cui siamo al contempo musica e corpo di ballo.
Per questo la poesia ci impegna. Ci obbliga a portare a buon fine il pegno (dal latino pignus da pingere = disegnare), cioè il segno che vogliamo lasciare di noi.
La poesia, non appena verga la carta o traccia lo schermo, ci “disegna”, rivela il nostro profilo, la nostra impronta, il segno di noi e quella identità celata che solo nel dialogo si delinea più nitidamente. Ed è nella relazione, di cui la scrittura è figlia, che si fondano la responsabilità e la morale.
Riandando al nostro inevitabile “domandare”, il poeta impegnato è dato in pegno alla politica e alla società?
Qui non c’è da scegliere, siamo nella polis e nelle sue regole, foss’anche per frangerle e nella ricerca –dialogica –è ancora necessario ritrovare il luogo (o i luoghi) del poeta, seguendo l’ispirazione del filosofo Paolo Rella[3]:

fuori dalla città i poeti,
menzogneri che traviano dal vero!
l’essenza delle forme persa
nella paralisi dell’anima
ecco la ragione s’impone
sull’antico dissidio di poesia e filosofia
la poesia irresponsabile della verità
inganno di versi affascinanti
distoglie la mente dall’oggetto
diaforà di strade antagoniste
innamorato che si stacca
nel sacrificio della poesia bruciata
dalla tragedia dell’amore
vinto l’agone col Simposio
ma resta il vuoto della rappresentazione
che Benjamin richiama con Cartesio
nel gioco del rimando
tra ciò che vedo e la sua specie

m’inoltrerò con coraggio nella culla delle parole
a catturare lo stupore del sogno
e immergerlo nel logico rigore
dell’ermeneutica più pura

custode dell’inesprimibile
attizzi il fuoco degli spiriti
che frantuma nell’orrore ogni forma
prima che la parola sapiente ricomponga
nell’unità di senso
l’incomposto sgranarsi di sostanza
nell’onirico volgersi dell’estasi

la singolarità confina ai margini della città
ma la tragedia accomuna
chi pensa e chi poeta
in un identico coro della vita

il poeta è vincolato all’ombra
nel gorgo di bene-male indistinti
nell’indecisione che gli spetta
è la metafisica il campo dell’incontro?
la contraddizione sfuma nella coesistenza del diverso?
l’apparenza è il volto noto dell’ombra
dove l’indicibile alligna
e viene a volte in superficie
nella stentata trama dei ritmi di parole
attrito surreale del senso sulla carne
della realtà sullo spazio estetico
pensiero-sentimento
la polis riaccolga con gioia
chiunque ci doni conoscenza

La parola che scaturisce già impegna quindi prima ancora di diventare impegno voluto nei contenuti cantati.
La parola è crea e ricrea, nel suo impeto, il rapporto con il mondo non più oggettivizzato e quindi antagonista dell’uomo e della donna. L’impetus – rimarcava Seneca – spinge a volere[4].
 “I senzapatria che intende Nietzsche, - ci svela Hediegger - sono coloro che vogliono, i volenti nelsenso della volontà di potenza, coloro ai quali, nella pienezza di luce del meriggio più chiaro,appare l’essenza del loro stesso volerein  cui vogliono e attraverso cui hanno acquistato dimestichezza, e per i quali perisce ogni nostalgia e struggimento.”[5]
E oggi? La libertà espressiva – l’ ”arcana libertà” che Aleksandr Blok già additata vel 1921 commemorando Puskin – è oggi cifra dell’impegno civile; lo spaziare liberamente e creativamente, il rendere nuove le cose, le abitudini, i fenomeni personali e sociali,c con il mosaico delle parole, delle metafore, dei simboli, dei significati, col reinventare le parole stesse, innovare il linguaggio.
“L’avvelenare i pozzi”, compito attribuito da Franco Fortini ai poeti impegnati ci porta a immergerci, pacificamente, nei labirinti sociali, a scardinare gli equilibri, a scandagliare, inventare, sovvertire gli ordini, additare senso, vincere ogni paura, ricordare che anche questo è il tempo opportuno e, come diceva Aristotele, ciò che accade nel momento opportuno è buono.


[1] G. Steiner, Una certa idea di Europa, Garzanti, Milano, 2006, p. 42.
[2] C. Penati, Vorrei imprimere un vuoto nell’aria, Fara Editore, 2008
[3] C. Penati, Controcanto di giornata, in “Carte nel vento”,  n. 11, 2010, rivista on line Anterem edizioni
[4] Giunio Ruzelli, Dinamiche passionali e responsabilità, p.247
[5] Martin Heidegger, Introduzione alla filosofia. Pensare e poetare, Bompiani, Milano 2009, p. 103

Bookcrossing a Rimini 26 marzo

martedì 23 marzo 2010

Chissà perché, non piove mai (quando ci sono le Elezioni)

di Marco Bottoni

Piove.
Governo Ladro.

Piove sul bagnato, piove sui giusti e sugli ingiusti, piove sui manifesti.
Elettorali, che fra cinque giorni si vota.
Piove sui manifesti “ingiusti” fatti attaccare sulle plance fuori dagli spazi designati (sdegno, ira e rumore: morte all’usurpatore!) e perciò prontamente “oscurati” da opportuni fogli bianchi.
Piove sui manifesti “ingiusti” e i fogli bianchi inzuppati lasciano trasparire figure e scritte, come accadeva di certe magliette addosso alle ragazze che, bagnate, facevano intravedere un po’ di quello che si nascondeva sotto, e noi con gli occhi strabuzzati lì a guardare.
Ma erano i tempi in cui non andavo ancora a votare.

Piove, e si è svuotata ormai del tutto la Grande Piazza che abbiamo vista piena di così tanta gente; più di un milione, dicono Loro, centocinquantamila dice la Questura; e, a dire il vero, viene un po’ da pensare se si considera che a questa affidi la tua sicurezza e a quelli il compito di farti governare.

Piove sui tetti, piove sulle strade, cade la pioggia sulle cassette per la posta semiaperte e bagna la corrispondenza elettorale, sbiadendone i colori.
Piove sui “consigli agli elettori” e a confrontare bene le promesse se ne ricava la consolante certezza che, vincano questi o quelli, nulla potrà andar male: sarà tre volte Natale, e festa tutto il giorno.
Ogni Cristo scenderà dalla Croce.
Anche gli uccelli faranno ritorno.

Piove, e per la prima volta mio figlio va a votare.
Ovviamente, mi dice, come vuole lui, e proprio per Colui che io non vorrei mai.
Governo Ladro.
Sinceramente, gli dico, non approvo, però rispetto il valore che ha l’Idea che è dentro te; io non la condivido, ma mi batterei per consentirti di manifestarla.
La frase gli piace talmente che decide di dividerla con i suoi pari, facendone parte allo sterminato popolo di Facebook così come l’ho detta, e mi prega di dettargliela “precisa”.
Mentre io detto, domanda se “l’Idea” si scrive “tuttinsieme” o con l’apostrofo.
Decisamente, ll fatto che per votare sia sufficiente saper fare un segno di croce è una grande fortuna, io penso.
Se non per Noi, per la Democrazia.

E, intanto, piove.

Governo Ladro?

lunedì 22 marzo 2010

Marcia fuori le sbarre

Carissimo, carissima,
la invito alla partecipazione di questo  primo pellegrinaggio con i carcerati in vista di una situazione che ha portato lo stesso Ministro Angelino Alfano il 13 febbraio a dichiararla  emergenza Nazionale, annunciando poi il Piano carceri.


Riteniamo che il malessere sia ancor più profondo e vogliamo fare questo Primo pellegrinaggio per chiedere aiuto al Cielo affinchè gli uomini possano trovare soluzioni adeguate.
 Le chiediamo la Sua partecipazione.Puo scegliere di partecipare a
tutto il percorso o a una parte di esso.
Nel caso che Lei non potesse partecipare fisicamente, le chiediamo di partecipare spiritualmente unendosi così sia ai detenuti che alle suore di Clausura, utilizzando la traccia in allegato.
In questo caso la invito a rispondermi per notificare la sua partecipazione spirituale all'indirizzo giorgiopieri@davide.it
La invito anche a diffondere la notizia attraverso il volantino.
In ogni caso... Grazie da Giorgio Pieri,l'equipe carcere
dell'Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII,  i volontari della
Casa madre del perdono, e tutti i carcerati e "Recuperandi".

Non è educato fare certi versi


intervento di Subhaga Gaetano Failla al convegno faentino Scrittura e impegno


                        
Bisogna scrivere versi tali che a gettare una poesia
contro la finestra il vetro si deve rompere.
 (Daniil Charms)



Ururu ru bau uuu uh uh uh. Certo non è più il mondo d’una svolta. Non è più quel che si dice, quel che si dice, quel che si dice. E le parole, come diceva quello, sono come le sono come le lelelelele. Roarrrtititi taratarata tarallucci e trino. Ci sono problemi più importanti, mirando il cielo ed ascoltando il canto. Queste mura bianche e basta con gli antiparassitari sterili. Viva i parassiti e i simboli appassiti. Lord oh mai lord. Mai o soltanto qualche volta. Cazzi in parlamento, ictus ed andropausa, lenti spermatozoi e gesti di mitraglia. Uh uh urca orco d’un orco il babau l’uomo nero e quello di terra che alalaala  amen, sull’erba dura di ghiaccio. Uh uh uh. Ma sedendo e mirando, col telecomando, eccoci qua. No, non è educato dire certe cose, fare certi versi: prr grr cacca pipì pupù beeee miao ciao.  E si dimentica il dolore buoni anestetici il cuore l’amore il calore la fede nuziale e quella talare tali e quali quelli che ho visto tali e quali quelli. Aveva quindi,  assai di buon grado, ubbidito ai parenti, che lo vollero prete. E si parla di impegno ma che non diventi un pegno una pigna una zampogna una carogna che ti guasta la cesta di mele e di arance e le uova nel paniere.
   Come incidere dunque lululululuuu. Bisogna fare un sogno e sognarlo con gli occhi d’un altro e poi l’altro diventa un rinoceronte una libellula e una scartoffia. E l’altro non esiste non desiste cracracracrac eu eu eu come la civetta quando di giorno compare. L’Italia è schiacciata - tra Vaticano, razzisti,  Berlusconi, mafia, leghisti, neofascisti, narcosi televisiva - nell’impero della bruttezza. Prrr! Non è educato dire ciò. Non è educato. Non fare certi versi, scostumato. Partivamo quando l’aurora nasceva con un color di rosa tra i fichidindia. Ra ra ra iarshhhh. E allora penso pensiamo dispensiamo dispense credenze creditori armadi e armadilli l’idea collettiva e i colletti inamidati e poi un po’ di Po di polenta padana e noi che veniamo dallo spazio infinito, anzi no, noi che abitiamo, ora adesso, coccodè, nello spazio infinito, pensiamo crediamo credenza armadio di abitare in un pocket coffee. Che poi è anche possibile. Il mio miglior  amico è un raccontino in bianco, di semplice intrigo,  che si svolge tutto nell’antenna sinistra di una locusta. Cosa abbiamo dimenticato? Abbiamo dimenticato il creato lo zenzero la porcellana il chicco di riso i ravioli sul fuoco la penna di gabbiano sulla spiaggia il gelo che ci arrossa il naso una pietra bianca nella tasca dei pantaloncini una lucertola e anche un barattolo di marmellata. Possono anche crepare di AIDS in Africa ma lasciategli  terminare quella benedetta partita a flipper, fatelo atterrare, fategli scardinare la mente cardinale. Che splendido dolore/ mi coltivo/ più bello di un geranio solitario/ e nero.  
   Sicché lasciamola andare per strada e per strudel questa creatura d’arte storta come una torta bruciacchiata e profumata lasciamola andare con un pegno e le pigne le zampogne e le mele cotogne con l’impegno d’un pupazzo di legno un Pinocchio uno scarabocchio la bellezza e la bruttezza vai a capire dove essa spire (o a capiri dove essa spiri). Son serpenti delle spire o spioni che son suoni. Questa gente l’avete portata in alto voi coi corazzieri, e adesso siete schiavi (…) v’incantano la lingua e le parole d’un astuto, e non vedete quello che succede.
   Il senso della semplicità ah! è stato nascosto da una onirica complessità ah!: essa appare linearità ah! all’uomo che sogna ed egli si dibatte preda delle emozioni. Un po’ di luce, almeno una abatjour accesa. Non rimpiango l’appartenenza al genere umano, non reclamo la tessera effimera alle vicissitudini d’una specie la cui importanza è stata esagerata e narrata come racconto epico – i suoi patetici viaggi fuori e dentro la celluloide della memoria, a entrambi i lati del sipario del sogno…Non fate brutti versi per favore, niente belati nemmeno o rutti o peti. No no no. Lasciamolo andare questo pupazzo di parole questo pazzo che canta questo pezzo buono come una pizza o bello come un ballo. Può capitare che un padre abbia un figlio brutto e senza nessuna qualità, e l’amore che gli porta gli mette una benda sugli occhi per non vederne i difetti. Che l’impegno sia un segno non il regno d’una tela di ragno.  E la famiglia, mi raccomando, e non ti toccare e non toccare. Tocco solo io che sono il capo, soldi serpenti sesso sasso, si suole sopravvivere, ma solo sino a un certo punto. Berlusconi Borghezio Bondi Bossi Brunetta. Ci ritroviamo nel fango a trangugiare feccia con le b maiuscole, da Benito in poi. Che s’impari a leggere sillabando il mio nome: Bé-Bé, Bérenger. Che io compaia sulle icone, sui milioni di croci in tutte le chiese. Che si dicano messe per me, ed io ne sia l’ostia. Che tutte le finestre illuminate abbiano il colore e la forma dei miei occhi, che i fiumi disegnino nelle pianure il mio profilo! Che mi si invochi eternamente, che mi si supplichi, che mi si implori.
E sì, lasciamolo andare questo pupazzo di parole. Ma di certo solo un pazzo può abbandonare il proprio figlio sghembo in una giungla di grembiulini, rumeni, fannulloni, magistrati, bottiglie d’acqua, crocefissi, zingari, comunisti, peni turgidi, mafie frigide, donne logiche, carcerati fragili, frantumati e friabili,  prostitute tragiche, leccapiedi magici, cupi pastori lupi, ballerine futili, tette e culi infrangibili, gli stranieri son strani, il lavoro una grana e la gioia una frana. Con sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che era anche lui una parvenza, che un altro stava sognandolo.
Ed infine, una trita (o una trota) spiritosaggine: adesso ci sono tanti stallieri e stalle (e dentro di noi di rugiada stille) ma a piedi o in macchina usciamo di notte a riveder le stelle.
   Voci. Dall’albero piccolo di ulivo, alla finestra, gli uccellini saltano e volano, e si perde lo sguardo di là dalle nuvole grigie e bianche, e negli azzurri frastagliati. Fiori di campo socchiusi nell’erba – e quel gambo immerso nell’acqua del bicchiere, i piedi bagnati d’un amico Disegnatore d’alberi. La luce si diffonde man mano e un orlo di celeste, di carta velina, sta sulla linea di collina, sul dorso peloso d’alberi d’un animale. Non passa nessuno nell’aria, eppure quanti passi lievi ovunque.



I brani evidenziati con il corsivo appartengono, nell’ordine, ai seguenti autori: Leopardi, Quasimodo, Leopardi, Manzoni, Shakespeare citato in epigrafe da Sciascia, Bonaviri, Drummond De Andrade, Roberto Amato,  Solone,  Manu Bazzano, Cervantes,  Ionesco, Borges, Dante.

Brevi storie verso la primavera

Gianfranco Bertagni. Architetture Utopiche


           27 febbraio
     Forza di gravità

   Finalmente una bella giornata.
   Ho lavato i capelli e sono uscito per asciugarli al sole, portando con me due libri da restituire in biblioteca. In piazza il sabato mattina c’è di solito qualcuno in più, specialmente nelle belle giornate. I tavoli di ferro della pizzeria sono ricoperti da tovaglie rosse, l’entrata del locale è socchiusa. Mi siedo in un tavolo un po’ più isolato, in pieno sole. I camerieri non avranno nulla in contrario.
   Passa un giovane amico. Parliamo placidamente di libri e di internet, di gare ciclistiche  e del lavoro che non si trova.
   Devo tagliarli questi capelli lunghi ormai asciutti, ma è un po’ tardi adesso, e dunque o vado in biblioteca o dal barbiere. Decido per la biblioteca perché il sabato resta  aperta solo al mattino, mentre il barbiere lo avrei ritrovato anche nel pomeriggio.
   Percorro una strada in salita tutta illuminata dal sole che è un piacere camminare. Ad uno stop vedo dei gesti dall’interno d’una macchina. Riconosco alla guida un amico. Dal finestrino abbassato parlo con lui di libri e d’una passeggiata al mare. A fianco al posto di guida c’è un bellissimo cane nero illanguidito col muso a terra. Ci lasciamo con una battuta allegra ad alta voce. Forse ci rivedremo nel pomeriggio.
   Arrivo un po’ sudato in biblioteca. Saluto familiarmente la bibliotecaria, parlo con lei di quella bella giornata e della primavera imminente. Gironzolo tra uno scaffale e l’altro, mi soffermo tra i titoli della letteratura italiana. Prendo in prestito un libro di Biamonti e uno di Cavazzoni.    
   Imbocco una strada in discesa dove non passa  nemmeno una macchina, perché ad un certo punto la via   prosegue con dei larghi scalini.
   La mia attenzione è attirata da un grande arbusto fiorito di bianco che spunta al di sotto del livello stradale, tra una casa e un muretto con una ringhiera. “È proprio primavera,” penso, guardando meglio i fiorellini bianchi, e chiedendomi che tipo d’arbusto sia quello.
   Poi noto delle basse transenne che delimitano lo spazio tra marciapiede e ringhiera. Avvicinandomi leggo alcuni piccoli avvisi dattiloscritti, con due frasi:
   “Attenzione non appoggiarsi!! Ringhiera pericolante!!”
   Guardo meglio, e sì, la ringhiera sembra  un po’ piegata, ed anche un pezzo di marciapiede pare  alquanto sconnesso. E allora penso alla forza di gravità. Al fatto che se qualcuno si fosse appoggiato alla ringhiera ed essa avesse ceduto, insieme alla ringhiera sarebbe caduto anche il malcapitato. Però, forse, il tipo distratto avrebbe potuto evitare in extremis la caduta, facendo un balzo all’indietro, una specie di piccolo volo. E per un attimo egli sarebbe stato libero, non avrebbe subìto la forza di gravità.
   E mentre scorrono questi pensieri leggeri, si stacca un petalo di fiore bianco dal ramo dell’arbusto. Il petalo oscilla un po’ nell’aria, lentamente. Infine si posa sulla ringhiera e rimane lì in equilibrio. Ma non accade nessun incidente, sotto il suo peso la ringhiera non cede.


28 febbraio
Ortiche parlanti

   La domenica si alzò un forte vento e il cielo divenne grigio. Mi incamminai per una strada in discesa che conduce all’esterno del paese e giunge fino ad una antica e bella fontana, grande, composta da diverse vasche di contenimento dell’acqua e ricoperta da una larga tettoia di tegole. Sugli alberi ingemmati saltellavano gli uccellini e alcuni di essi cantavano tra i rami più alti.
   “Annunciano un miglioramento del tempo,” pensai.
   Il vento mi raffreddava la testa, e i pensieri si scompigliavano insieme ai capelli. Tuttavia, man mano che scendevo, le folate si attenuavano o sparivano del tutto. Un albero di mimosa finalmente in fiore svettava al di sopra d’un rialzo della campagna. Perfino l’aria intorno alla sua chioma sembrava divenire gialla e allegra. Un cane mi inseguì abbaiando doverosamente fin dove glielo consentiva il recinto della casa in cui era rinchiuso. Io lo guardai per un attimo negli occhi e mi parve che l’animale nemmeno mi stesse osservando, talmente era impegnato nel suo abbaiare.
   Poi, sulla sinistra, in un terreno incolto, vidi le nuove ortiche, d’un verde tenero, spuntate da poco tempo.
   “Tra qualche giorno saranno già abbastanza alte da poterne raccogliere le cime e mangiarle. Sono così buone…” pensai. Ma immaginai di poterle prendere anche in quel preciso momento, perché, seppur basse, ce ne erano proprio tante. E lo avrei fatto senza né un sacchetto dove metterle e nemmeno i guanti per proteggermi. Scavalcai una  piccola cunetta dove vi scorreva un rivolo d’acqua trasparente.
   Mi ritrovai nel campo di ortiche. Strappai velocemente quattro piantine che vennero fuori dalla terra con tutte le radici.
   “Ahi! Ahi! Ahi! Ahi!” gemettero le piantine di ortica.
   “Ahi! Ahi! Ahi! Ahi!” esclamai io con le dita doloranti e arrossate dal liquido urticante.


1 marzo
Porta e luna

   Un filo di ragnatela scendeva dalla luna piena, oscillava nella notte ventosa. Con molta cautela, per non spezzarlo, mi calavo giù, tenendomi forte al filo. Ed eccomi di nuovo oltre la notte, in un mattino mite. Nell’azzurro del cielo navigano lunghe nuvole bianche e grigie, buffe e attorcigliate.
   Un bambino nel cortile mi chiede se posso fare la conta per lui e i suoi amici che giocano a nascondino. Non posso, gli dico, io sto andando via, e ho la borsa già in mano, e l’aria lieve carezza i volti.
   Poi incontro due piccole magnolie fiorite, e penso, da quanto tempo carissime, talmente tanto da aver dimenticato il vostro nome, e rivedo le mani rosa, tra i rami, protese verso il cielo amico.
   Nel pomeriggio, nei primi pensieri torpidi dopo la siesta, ritorna nella mente una grossa mano giallastra sulla maniglia d’una porta. Qualcuno vuole entrare, cerca di aprire la porta, ed io ricordo il risveglio di allora, l’ansia e il cuore in gola. Ma adesso potrei anche venderla a poco prezzo quella porta, come in un racconto, non lasciamo barriere, ostacoli, indecisioni. Che fluisca liberamente l’universo, sì, certo, che entri la primavera, e questa pioggia di marzo.




2 marzo
Le api dorate

   Un bel raffreddore, spalle ammaccate e mal di gola. Mi sveglio col respiro ingolfato, in cerca di fazzoletti. Sono tutto indolenzito.
   Dalla finestra chiusa filtra poca luce. Le previsioni del servizio meteorologico si sono realizzate: cielo nuvoloso che andrà rischiarandosi in tarda mattinata.
   Cerco di correre ai ripari. Propoli, latte caldo e miele, più tardi una tisana di rosa canina.
   Pochi giorni fa ho visto il dvd d’una emozionante intervista a Mario Rigoni Stern, dove si parlava anche dell’abitudine dello scrittore di nebulizzare, nei periodi invernali di maggior diffusione influenzale, il propoli per le stanze della casa, e della sua profonda esperienza relativa alle api e al loro mondo.
   Mi giunge pure in mente una lettera di Albert Hofmann inviata a Ernst Jünger nel marzo del 1947. Hofmann fa riferimento ad un carissimo ricordo d’una frase, “le api dorate”, scritta nel libro di Jünger  Le scogliere di marmo.
   Sono adesso solo in casa ed un ronzio multisonoro mi sorprende. Volgo lo sguardo alle mie spalle, verso il corridoio. Alcune api volteggiano a mezz’aria,  intrecciando le loro traiettorie sinuose. Lasciano al loro passaggio scie luminose e pulviscolo dorato che si sparge tutto intorno.


3 marzo
Finestra sul mare

   Dalla casa entrano le nuvole, se le si sanno invitare. Almeno una finestra aperta. Così ho fatto.
   Sono entrate le nuvole con le loro ombre, lievi timori impalpabili, l’inquietudine dell’oscurità, nel cuore del confine della luce. Le nuvole hanno visitato la casa, curiose, hanno lasciato veli di sussurri, sospiri, ricordi, sguardi assonnati, visioni tremolanti. Poi sono andate via, ho mosso appena la mano in segno di saluto.
   Ho chiuso la finestra. Ho avvicinato il viso al vetro. Oltre c’è il mare, azzurro. Da dove venga quel colore chiaro non so. Un raggio segreto ne tinge la superficie, la illumina. Il mare è lì, ma io già lo raggiungo con lo sguardo. Sono in un vascello, navigo sulle acque aperte. Uccelli mi accompagnano a ricordarmi la finestra e la costa, poi anch’essi mi lasciano. Sono con il mare. Non sono solo.



4 marzo
Dream

   Entro in un bar. Grandi pini marittimi fuori nella pioggia. Ordino un cappuccino. Mi farà  bene per il raffreddore, qualcosa di caldo. C’è una scritta nella rastrelliera dei quotidiani, in alto:
   “I giornali sono in vendita non in lettura!”
   Riesco comunque a carpire un titolo in prima pagina a caratteri cubitali:
   “GLI ANGOLI VOLANO”
   Mi chiedo invano perché.
   Questo non senso ha perso la capacità di dare, per contrasto, maggior senso a ciò che si ritiene importante, penso inutilmente.
   In macchina, al ritorno, suona una piccola chitarra, e il canto di lui mi intenerisce particolarmente, quando assapora la prima sillaba della parola dream.



5 marzo
La pelle di carta

   Ricordo le mie lacrime di bambino. Mi scottavano il viso, mi giungevano in bocca e sapevano di sale. Le lacrime creavano un grembo di completo isolamento. Per pochi istanti ero di nuovo assolutamente solo, di nuovo assolutamente tutto, non più io, come lo siamo stati tutti.
   Accanto ad una casa si innalza  una magnolia insolitamente alta. I suoi fiori non si aprono verso il cielo come carne pallida, ma sono ancora chiusi, piccole mani strette.
   Tornerà in queste ore la neve sui monti, si dice, tarderà la primavera ed i suoi languori, rimarremo altri giorni a carezzare il tepore delle case, lasciando le strade fuori. La primavera sarà più dolce.
   Ho letto poco fa alcune pagine di letteratura erotica. La pelle freme di desiderio. Ed è pelle di carta.



6 marzo
Sulla spiaggia a occhi chiusi

   Davanti al sole sul mare, sulla spiaggia a occhi chiusi. Seduto ad un gradino di casa, nascosto al vento freddo che mi sbatte addosso mi sferza il viso combatte con il tepore che mi bacia affannato, qualcuno passa sulla sabbia con un cane o senza, un gruppo di ragazzi e ragazze urla e ride forte, si avvicinano bambini guidati in divertimenti organizzati.
   Un pallone rotola sulla sabbia. Dei vecchi parlano tra loro accucciati in giacconi e cappotti. Cosa vedranno gli occhi dell’ultimo sole. Come in una frase di Biamonti. Quale l’ultimo odore e il primo.
   Ci sono semplici giochi, immortali come il gioco stesso. Sento la lamina che mi divide da un passaggio, il confine che per sua natura non esiste e svanirà quando sarà il momento.
   Sulla spiaggia a occhi chiusi. Ma non è vero. Sono in casa e la televisione parla. Ma non è vero. Forse.



7 marzo
Vite di bruchi e farfalle

   Al termine della strada, lì in fondo, sfavilla il mare a ridosso del cielo nitido. Chico Buarque canta con voce profumata come frutta matura - un fico appena raccolto, un mango, una arancia succosa. La sua banda suona, attraversa le vie del paese, porte e finestre si aprono, la musica entra danzando.
   Fuori dal cinema, nell’aria fredda e tersa, nel sole pomeridiano ancora alto, bambini e adulti attendono l’incanto del nuovo film di Alice. Ci affrettiamo con occhiali 3D,  giacconi e cappotti nel cinema affollato. La scena delle rose bianche dipinte a mano di rosso.
   Si muore in un letto o in un bar, in battaglia o in un campo di calcio.
   Come sono belle le vite dei bruchi e anche quelle delle farfalle.



8 marzo
Pecore

   I bassi ulivi nel cortile sono piegati dal vento freddo. Il piccolo lago appare vivido d’un azzurro pastello, intorno una chiazza di terra arata è carne pulsante sotto il cielo sottile. Una sughera ha il corpo esposto, nudo, rossastro, senza un vasto lembo di pelle, sembra disperdere calore in fumo nella luce.
   Poi, osservo un gregge di pecore immobile nel campo.
   Statue di presepe.
   Vecchie immagini televisive.
   Eppure.
   La pecora del gregge lì fuori è reale. La pecora dell’antico intervallo tv è reale. La statuina di pecora del presepe è reale. Il disorientamento giunge quando le pecore si confondono tra di loro, oppure quando una di esse prende il sopravvento sulle altre. E allora talvolta si vuol parlare, si cerca di dire perfino qualcosa di importante, e invece, aprendo la bocca, questo è quel che ne esce:
   “Beee…”



9 marzo
Sulla visione del colore bianco

   Chiudo gli occhi di notte e vedo il colore bianco. Uno sfolgorio abbagliante che mi ha abbracciato con strette vigorose e delicate durante la giornata. Bianco. Dovunque.
   È iniziato al mattino. La neve era sui tetti, su  panchine e macchine. Poca resisteva ai bordi delle strade. Un cielo lattiginoso delimitava lo sguardo verso colline e montagne. Ascoltavo samba e musica di ottoni. Il sole del Brasile e la neve della Toscana convivevano bizzarramente nella mia automobile.
   Al mattino i bambini avevano occhi e voci piene d’esclamazioni rivolti ai vetri delle finestre e oltre, al nevischio che vorticava nel vento gelido. Apparivano fantasmi sparpagliati e svolazzanti, che si disperdevano sfilacciati, poi si ricomponevano, barcollavano in folate imprevedibili, danzavano un ballo rapidissimo che si spezzava in frammenti, scatti, onde fulminee, gorghi,  risucchi.
   Ritorno a casa a stento. Ci sarà ancora un tepore di mura ad accogliermi. Protetto da un giaciglio semovente – sì, la mia macchina – di metallo, plastica, vetroresina e altro, arranco spinto di qua e di là da un turbine di vento che sputa fiocchi impazziti di neve, e i fiocchi diventano sempre più grandi, i pneumatici faticano a mantenere la strada viscida del nuovo gelo. Comincio a temere che una folata più violenta mi spinga in spazi indesiderati, sul ciglio della strada, nelle nuvole unite in un unico indistinto biancore, sollevato in alto da quello sfolgorio incantato, proiettato in un mondo di Oz non scuro di cicloni, ma bianco - labirintico illimitato bianco.
   Nel pomeriggio usciamo avvolti in fagotti fetali – risate e palle di neve, certo – la cattedrale di sabbia e i suoi gradini fermi nel vortice sprofondano e si innalzano in un ulteriore sogno. Le chiome degli alberi scompigliate, con capelli folti avvampati di fiamme verdi, respirano a polmoni spalancati e bocche come ululati.
   Talvolta, oltre le risate, assaporiamo il silenzio – un silenzio vivido, pullulante di voci.



10 marzo
La morte della neve

   Le restavano poche ore ormai. Quel grigio sulla pelle dei cumuli che sopravvivevano ai lati della strada e nella poltiglia acquosa calpestata, preannunciava la prossima morte della neve. Così compatta, lieve, silenziosa e candida il giorno prima, e adesso disfatta, incerta, melmosa. Ma si sa, è così. Nessun rammarico. È la morte, la morte della neve. Era giunto il momento dei commiati.
   “Addio, addio,” dissi, agitando la mano. “Addio, arrivederci,” aggiunsi. “Ti saprò riconoscere per terra, nei rivoli d’acqua che mi inzuppano le scarpe, nel cielo e nella pioggia, quando bagnerai i miei capelli, gli occhiali e il viso, ti saprò incontrare di nuovo anche così, siccome non porto mai l’ombrello. Addio, arrivederci!”




11 marzo
Dimenticanza

   Qualcuno scrive per non perdere “quell’attimo”. Qualcuno scatta fotografie per non smarrire una immagine. Io ho scattato fotografie raramente, anche quando ho percorso affascinanti luoghi remoti. Pensavo: “In tal modo, guarderò più intensamente, una macchina sugli occhi potrebbe distrarmi.” Dimenticherò, sì, pensavo, ma questi cieli e questi visi diverranno il cielo di quel che sono adesso, il mio stesso viso.



12 marzo
Illusione del sole e occhi


   La mia testa oscilla lentamente nel treno in viaggio. La nenia delle enormi ruote metalliche e della ferrovia attraverso gli Appennini centrali. Le carrozze sono verdi e pulite, i passeggeri silenziosi. Fuori cielo grigio.
   Una luce di sole dal finestrino oltrepassa le mie palpebre. Mi sveglio in cerca d’un azzurro di cielo e di raggi solari. Ma il cielo è ancora opaco, il sole nascosto.
   È stata la neve a destarmi.
   Luce bianca abbagliante, vastissima, distesa sui monti che attraversiamo.
   Poi, sorprendo una ragazza che mi guarda dallo scompartimento vicino. Ha occhi e capelli scuri, il corpo esile, gambe lunghe. Trent’anni forse.
   In stazione ci lasciamo. Anche i suoi occhi, insieme agli alberi neri nella neve, quel cielo, quel respiro, sono adesso il mio oggi, il mio respiro, e questo raffreddore che ho da un paio di settimane.



13 marzo
Scrivere e parlare


   Poeti e narratori. Ci siamo incontrati durante una sosta del viaggio.
   Chi scrive sorseggia un cappuccino, forse chiude un attimo gli occhi senza accorgersene, mangia una brioche, si lascia riscaldare dai primi raggi di sole d’un mattino sereno, scioglie le ossa gelate dall’inverno. E quando fa ciò, lo scrittore quasi sempre non scrive, e nemmeno parla.
   Poi, giungono le parole, spesso sono belle, in pubblico ad alta voce, talvolta spezzate da un’emozione o strascinate in una idea chiusa.
   Gli scrittori sorseggiano una birra e mangiano pizze, e ridono pure, e fanno anche schiamazzi. E non scrivono quando mangiano e bevono. Ma ci sono perfino silenzi e certi sguardi d’altri mondi.
   Gli scrittori di notte, prima del commiato, pronunciano un’altra battuta ad alta voce, e quando sono in coppia bisbigliano e vorrebbero dirsi qualcosa di speciale, con un gesto, un sussurro in un orecchio, una carezza. Poi invece si scambiano indirizzi email, un abbraccio e baci mimati sulle guance. Infine si cerca e si dice l’ultima parola, sperando che sia quella giusta.



14 marzo
La valigia

   Sistemo sulle spalle lo zainetto, scendo dal treno. Sono stordito dalle ore di sonno perduto e dal torpore spossato che mi ha colto durante il viaggio. Stazione Termini di domenica mattina. Solito frastuono di altoparlanti, viavai di passeggeri, folla di linguaggi multiformi, pensieri, metallo liquido di emozioni, sigarette, abbracci e baci.
   Cerco dell’acqua da bere. Non la trovo. Mangio un cioccolato al cocco. Come un sonnambulo mi lascio trasportare dall’onda densa di umori umani e di vibrazioni elettromagnetiche. Mi avvicino al binario del mio treno successivo. Poi, esclamo d’un tratto:
   “OH!”
   E quasi mi strozzo con il boccone di cioccolato e cocco. Ho dimenticato la valigia sul treno!
   Corro a perdifiato, zigzagando tra la gente abituata a vedere qualcuno che si precipita verso un binario. Corro e penso:
   “E se il treno sarà partito? E se sarà in deposito? E se la valigia abbandonata avrà messo in allarme il personale della stazione? E se…”
   Trovo il treno ancora lì, sullo stesso binario, attraverso d’un balzo le poche carrozze, e vedo la mia valigia sul portabagagli, nella carrozza vuota.
   Sarebbe stato davvero un peccato perderla. Lì dentro c’erano: un cortile francescano illuminato dal primo sole, le parole notturne prima d’un addio, un merlo dal becco giallo che saltella e becchetta accanto alla mia panchina di legno nell’aria mite, il titolo d’un giornale, alcune frasi: “Le nostre radici che ci soffocano.” “Saper lasciare la Terra con un sì di gratitudine.” “Una poesia concava come un grembo gravido.”



15 marzo
Il ragazzo e il pettirosso

   Il ragazzo di Notre-Dame cura nella sua dimora nel campanile le ali e le zampe rotte di passerotti e piccioni, avvolge con una sottilissima sciarpa colorata il minuscolo collo d’un pettirosso affaticato da una brutta tosse. Gli uccellini riposano in certe piccole scatole e hanno per giaciglio un letto di foglie verdi.
   I bambini in classe sorridono e spalancano gli occhi.



16 marzo
Margheritine

   Sono spuntate le margheritine. I piccoli fiori si spargono a macchie bianche nel prato. C’è sempre qualche bambino a raccoglierli. Li riunisce in mazzetti esili come un sospiro e stringendoli con due dita, te li porge e dice:
   “Sono per te.”




17 marzo
Pietra al tramonto

   Alitano veli di cotone sul lago, scosto il lenzuolo bianco dal letto, il fantasma sfilacciato in camicia da notte mi segue per le dimore etrusche. Precipita il giallo e l’azzurro dovunque, crolla nell’aria sottile di primavera, la pietra appare al tramonto nella bocca dipinta del cielo, un orlo è argenteo, gobba a ponente, dove si liquefa il colore sull’orizzonte. Starnazzano italiani nel televisore. Tutto è compiuto, circolarmente.


18 marzo
Luce di candela


   Filari nudi, scuri, lunghi tralci di vite paralleli, a perdita d’occhio – il campo ombroso, e un chicco d’uva brillante nell’immagine interiore. Nuvole chiare e cieli si impigliano tra altissimi tronchi di pini marittimi, agavi esplodono braccia e mani verdi al centro del mattino. Piccoli cipressi languidi camminano in fila indiana nel sentiero d’un colle.
   Una candela accesa sul tavolo della cucina rischiara la notte tra un riso al sugo e i fagiolini.


19 marzo
Terremoti colorati e salici piangenti

   Ricreo nel sogno della notte una odierna wonderland, ed io sono la nuova Alice in cerca d’un senso.
   Uno dei miei corpi spicca il volo dal tepore del letto. Mi ritrovo in un appartamento molto grande, simile ad un locale d’una città-mercato; è dipinto di verde vivido, le geometrie delle stanze seguono modelli con linee di fuga che disperdono l’ambiente, non c’è una sensazione di grembo caldo domestico. Penso: “Tra poco ci sarà un fortissimo terremoto”. Poi comunico ad alta voce il mio pensiero ai cinque o sei amici – alcuni di vecchia data – che sono con me.
   Ci sediamo sul pavimento lucido. Giunge il terremoto. L’appartamento, posto forse al decimo piano d’un grande palazzo, si inclina con ampie oscillazioni. Portiamo le mani sulla testa, in difesa. Il terremoto è interminabile. Il palazzo oscilla così tanto che la parte dell’edificio che prima ci trovavamo di fronte non è più la stessa. Poi il nostro appartamento cambia colore, diventa completamente blu. E il terremoto cessa, senza aver provocato alcun danno.
   Ma non solo il colore, anche la vita nel mio appartamento, adesso blu, è cambiata. Gli altri coinquilini sembrano quasi non riconoscermi, mi osservano talvolta con un certo fastidio, come un ribelle o un reprobo, oppure come un’immagine trasparente. Si esprimono con un nuovo linguaggio, incomprensibile, e compiono azioni assurde. La vita nell’appartamento è divenuta paradossale, io ne rimango al margine, con un senso di lieve smarrimento, non di dolore. Gli altri mi lasciano al confine dei loro giochi meccanici, apatici – sanno che con essi non condivido più una vicenda comune.
   Infine, imparo il loro linguaggio paradossale, ne svelo i codici comunicativi, gioco lo stesso gioco; mi lascio trasportare da quel veicolo, da quel sorprendente robot, ma il biglietto del viaggio è strettamente nelle mie mani.
   Mi sveglio. Conservo dentro di me il senso di wonder e il colore verde e blu.
   Al mattino i bambini, con cellulari di cartoncino in mano, mimano telefonate ai papà per la festa di San Giuseppe.
   Al mio ritorno, appare sulla sinistra della strada, alle spalle d’una vecchia casa di campagna, un salice piangente rinato nelle nuove foglie di tenero verde. Prima di addormentarmi ancora, mi sorprende nello schermo cinematografico il viola dei campi fioriti di lavanda.



20 marzo
Cercando casa
 
   Primavera. Uova e pulcini. Fiori appena sbocciati. Coniglietti pasquali al primo sguardo giocoso sul mondo. Rondini che cercano casa. Vita nuova in terra e in cielo. Resurrezioni ovunque.
   Ed io, in questo giorno grigio che lacrima umide brume, cerco ancora casa. La cerco su questo pianeta, spostandomi da un punto all’altro della sua superficie. Miliardi di persone si spostano con la propria casa sulle spalle, come tartarughe arrancano lente, allungano il collo grinzoso in cerca d’un posto dove vivere protetti, dove poter deporre il proprio guscio e quel  peso – in cerca d’una casa. Si spostano da un punto all’altro e l’intero pianeta sposta loro da un punto all’altro dello spazio. Talvolta la Terra raggiunge una distanza equinoziale dal Sole, come oggi, equinozio di primavera – equilibrio tra giorno e notte.
   Nostro benedetto equilibrio, a saperlo mantenere mentre tutto vortica all’impazzata insieme a noi, nello spazio interstellare, e urliamo eccitati di gioia come bambini  su una giostra, pronti perfino a cambiare luna park, per spiccare il volo verso altri pianeti e verso altre forme.



21 marzo
Buona primavera!
  

   Ci risvegliamo ancora in questo mattino.
   Una nuova sorpresa, un incanto.
   Buona primavera!