mercoledì 29 giugno 2011

Art Shot a Crema 2-9 lug

Dal  2 al  9  Luglio 2011

Chiostri del Teatro S. Domenico di  Crema (Cr)

8a  Edizione Mostra   Art Shot       


Circolo Poetico Correnti     

       
presenta

TECHNOMATIC  VIDEOPOETRY

Rassegna di Videopoesia


Autori dei  video

Gruppo SInestetico  Michele Lambo  SempreCreativaPoetica
Gruppo Fludd   Ruggero Maggi   Antonio Meo  Giorgio Longo
Semiolabile  Cinematografica  Elena Chiesa


Inaugurazione  Sabato  2  Luglio  alle ore 18:00



Orari : Sab 2   18.00 - 24.00      Dom 3  18.30 -24.00
             Mar 5   18.30 -2400        Mer  6   21.30 -23.00
             Giov 7  21.00 -24.00      Ven 8  21.30 -24.00
             Sab 9   17.30 -24.00





Info Circolo Poetico Correnti: Alberto Mori  3394439848
Info programma Artshot: http://www.artshotcrema.blogspot.com



"Il poeta è l'organizzatore dei sogni"

 

martedì 28 giugno 2011

Eron a Riccione dal 1^ luglio

Giuseppe Polverari: informe e deserto a Fano dal 3 luglio


Storie dall’India: le parabole del Mahabharata a Montegiove 4-9 lug


 
tel. 0721 86.40.90
 info@eremomontegiove.it

lunedì 27 giugno 2011

Ahmed Ben Dhiab alla Barbagianna (Pontassieve) 1 luglio

Venerdì 1 luglio avremo ospite in concerto alla "Barbagianna: una casa per l'arte contemporanea" lo straordinario artista Ahmed Ben Dhiab, uno dei maggiori vocalisti del mondo arabo contemporaneo. Vi aspettiamo!
Alessandra Borsetti Venier
Archivio della Voce dei Poeti  



La S.V. è invitata 
 
venerdì 1 luglio 2011

Omaggio a
AHMED BEN DHIAB


Ore 18.00
  Mostra di Pittura e Grafica
’Les Jardins de l’invisible’
Area N.O.
Via Panicale 24R
Firenze


Ore 21.00
Concerto
‘DISORIENTE’ la narrazione del sole
LA BARBAGIANNA: una casa per l’arte contemporanea
Via di Grignano 25
Pontassieve (FI)

Alla Barbagianna sono visitabili le esposizioni:
-Materiali storici dell’ARCHIVIO DELLA VOCE DEI POETI
-Enzo Minarelli, "Nembrot e altri libri&oggetto 1974-2010"
-Massimo Mori e Gianna Scoino, IL SILENZIO libro-oggetto, Morgana Edizioni
-Massimo Mori catalogo-oggetto del poema concreto Codex



Artista polivalente, cantante, musicista, pittore, regista, poeta. Nato a Tunisi, risiede a Parigi. Ben Dhiab ha la scienza, il cuore e il magnetismo di un grande maestro, ciò che fa di lui uno dei maggiori vocalisti del mondo arabo contemporaneo. Esplora e reinventa con profonda libertà l’arte vocale e il canto classico arabo e sufi, con voce generosa e potente di perfetta precisione celebrando i più bei testi della poesia araba mistica e profana. Crea e dirige varie formazioni musicali con artisti d’eccezione di diverse origini e culture, in un raro incontro tra Oriente e Occidente. Festival internazionali, programmi televisivi e radiofonici in Europa, Africa e Americhe.
Nell'importante discografia, ultimi i CD ‘Nour’ e ‘Safar’. Ha realizzato la regia e le musiche di numerose creazioni teatrali, tra cui ‘Va ma terre quelle belle idée’ di A. Laabi produzione Centre G. Pompidou, Parigi 1983; regia, canto, scenografia per lo spettacolo totale ‘Vulcani’ di F. Limoli [Italia, Marocco, Olanda, 1999|2002], musiche e scenografie per la Compagnia di danza U.S.F. [U.S.A., 1998|2006].
Direttore artistico di eventi culturali in Europa, collabora con diverse Istituzioni internazionali. Autore di uno studio sulla creazione araba contemporanea edito dall’UNESCO e di numerosi libri tra cui ‘Chants Tatoués’ [Hiwar, Rotterdam] e l’ultima raccolta di poesie ‘Paroles de sable’ [L’Harmattan, Parigi].
E' anche pittore restauratore della grande moschea di Kerouan. Ben Dhiab espone le sue opere visive dal 1970 in Europa, Messico, Brasile, U.S.A.

Premiazione del Concorso Insanamente su Icaro TV

La cerimonia di premiazione del concorso Insanamente 2011 andrà in onda mercoledì 29 giugno alle 21.15

www.icarotv.com/portale_web/lib/portale5.aspx

Mirco Tenti
Bottega Video S.R.L.
e-mail mirco@bottegavideo.com
Tel. +39.0541.785.785  
Fax +39.0541.902.064

Icaro TV          
canale 91

La poetica del Sublime nell’opera artistica di Gerry Turano

di Antonella Catini Lucente (nota critico-poetica readatta in occasione della recente pubblicazione della monografia su l'opera di Gerry Turano, edita da Giulio Perrone nella nuova colla d'arte  VENTI-VENTUNO


  “seggo tremante, giorno e notte i miei amici si stupiscono di me,
ma perdonano le mie fantasticherie. Io non ci rinuncio al mio grande
compito
di aprire i Mondi Eterni, di aprire gli occhi immortali
dell’uomo ai Mondi del Pensiero e dell’Eternità
All’Umana Fantasia Che sempre si espande nel Seno di Dio”
(William Balke, Jerusalem)


Al principio era il Segno, e il Segno era presso Dio, e il Segno era Dio.
Al principio era  il Segno  – “ il mio primo disegno che io ricordi ritraeva un amico di famiglia , simpatico e abbondante” – scaturito spontaneo da cellule giovani  e da sinapsi fluide , ancora in cerca del connettore.
Un Segno dotato di una sua propria vita, pre-existita,  e che si sarebbe palesato, scaturendo dalla  apparente casualità del Caos,  in una nuova, inaspettata, sempre esistita Epifania “nulla è più sorprendente di scoprire come possa mutare in corso d’opera la forma di un modello immaginato, come possa condurti verso altra conoscenza. Conoscenza già esistente , probabilmente , che tuttavia non si sa di possedere”.
Un Segno , strumento e fine  allo stesso tempo,  di un misterioso quanto estatico “ viaggio iniziatico”, durante il quale , come trasportato su  canoa inconsapevole, l’autore tramuta il magma di una coscienza in formazione in un Cosmo di  significanti chiari  , specchi fedeli di profondità che si mostrano  via, via ;  significanti perfetti nel compimento del  processo di mimesis dal “ Nulla al Tutto”.
Al principio era il Segno, e il Segno era presso Dio.  
Prima della Creazione era la Perfezione. Prima dell’Azione era la Quiete. Ma l’atto creativo, necessario creatore di sé stesso, fin dalla sua scaturigine e per sua stessa essenza, compie la dissoluzione dell’Unità, attua la separazione di ciò che era “Intero” , bastante a sé stesso nell’assenza di desiderio, nella quiete assoluta, nella primordiale  e perfetta congiunzione di Uno e Molteplice. E lo fa obbligato da una Forza fatale tesa al ricongiungimento con l’Armonia del Principio:  dal Caos immanente,  prima dell’intervento ispirato dell’artista,  al regno dell’EDEN , non più che una sublime  ricomposizione ad Unità, la Terra promessa cui l’Arte ci conduce.
“Bisogna prendere in considerazione la scandalosa possibilità, sosteneva Theodore Roszak in La nascita di una controcultura , “che laddove l’immaginazione visionaria aumenta il proprio splendore, la magia, questa antica antagonista della scienza, si rinnovi, tramutando la nostra banale realtà quotidiana in qualcosa di più grosso forse di più pauroso, certamente di più avventuroso di quanto potrebbe mai comportare la ristretta razionalità della coscienza obiettiva”
È per questo che ogni processo creativo porta in sé la tragedia della ricomposizione, l’angoscia del “ ritorno” al Principio, la martellante e pur sublime tensione alla ricongiunzione di quell’incipit ignoto , a volte, fino al termine del percorso.  
Dice Turanonell’opera d’arte – se non vi è finzione – tutto si Manifesta. Anzi, accade qualcosa di più: in essa matura una nuova indole inaspettata, alla fine è sempre differente da come viene pensata e progettata”.
Una dichiarazione,  insieme, della insignificanza dell’uomo e della sua similitudine al divino; la constatazione di  assistere al compimento del proprio destino artistico come una sorta di spettatore – demiurgo,  strumento della Epifania di sé stesso , che assiste e si fa scalpello della maturazione di una nuova indole inaspettata; meravigliose parole che mostrano una profonda  convinzione : l’opera d’arte ha una sua propria vita che l’artista non fa che far emergere; una vita pre-esistente che sembra scegliere , nell’incarnarsi nel Figlio, il Predestinato; il Salvatore. Colui che, solo, potrebbe come nessun altro,  compiere il processo unico di disvelamento. E  così il Genio poetico, l’artista, nel loro creare si fanno  Profeti divenendo le loro Visioni epifanie di Verità che, attraverso un processo di benefica contaminazione,  possono essere consegnate agli uomini meno ispirati.  Un disvelamento che strappa, appunto, il “ Velo” (VALA, nella teofania di Blake, intesa come natura, superficie, involucro del mondo),  che squarcia le tenebre, che genera la Luce. Che , come dice l’artista, “mostra qualcosa che non si conosceva e che rivela, in qualche modo, all’artista stesso , aspetti sconosciuti della sua stessa personalità: una perfetta  consonanza con le parole di  W. Blake (“tutte le cose esistono nella Fantasia umana”,  Jerusalem, 69:25)  che,  parlando della sua  Jerusalem, affermava di aver composto il Poema “dietro immediata Dettatura (…) senza Premeditazione e anche senza Volerlo (…)  senza Travaglio o Applicazione” ( lettera all’amico Thomas Butt, 25 aprile 1803), intriso in quella  Visionarietà che partecipa della condizione dell’Eterno, in totale dissoluzione delle categorie di  Tempo e  Spazio.
La creazione artistica, nel percorso di Gerry Turano  è l’unica forma di conoscenza della Verità – “nutrire il desiderio di libertà (Verità)  e non ho altri strumenti, oltre l’arte”, a cui si abbandona consapevole che “Altri” ne detengono le chiavi e che pervenire ad essa è possibile solo attraverso l’ingresso nel mondo divino della Fantasia; non sarà allora il tirannico URIZEN, incarnazione della fredda e limitata ragione e dell’astratta speculazione, ma URTHONA , con l’aiuto di LOS ( custode della Visione) a ricondurre l’artista all’EDEN primordiale  perduto dopo la Caduta;  Eden a  cui si perviene nella ricomposizione delle antitetiche  e  apparenti  scissioni.
Il compimento del percorso si snoda così, in un tempo immobile e dinamico e   in uno spazio illusorio e ingannatore, tra LOS ed ENITHARMON, nello  stupore dello stesso creatore che, come condotto da Qualcuno, ritrova il sé stesso “originario”, quel sé stesso che era stato stabilito egli fosse e, insieme, si fa rivelatore di un mondo che, come ordinato al principio, solo lui avrebbe potuto rendere manifesto: “i moti dell’anima prendono forma su una semplice idea iniziale per svilupparsi in modo proprio e spesso inatteso . Nulla è più sorprendente di scoprire come possa mutare in corso d’opera la forma di un modello immaginato , come possa condurti verso altra conoscenza (coscienza)”.
In tal modo l’Atto Creativo dell’artista si fa emanazione, cogliendo la Parola che Dio pronuncia a Sé stesso, della Suprema Energia Creatrice che contiene, essa sì, Ragione e Intuizione in armonia perfetta.
Così l’Uomo è dotato di una Forza sacra  che, manifestandosi nella creazione artistica, si palesa in quanto emanazione di un Creatore “ altro da sé “ che si manifesta all’artista   quando  quest’ultimo si sorprende a “ dire / fare”  cose che travalicano la sua stessa intenzionalità cosciente.
L’uomo, nell’atto creativo artistico, si fa demiurgo dei primordi e inconsapevole strumento del divino che lo risolleva dalla “Caduta “ caduto , e lo affranca dall’illusorietà  delle proprie percezioni materiali, riconducendolo a quello Spazio-Tempo antecedente alla “Separazione”: “nulla è più sorprendente – dice Gerry Turano – di scoprire come possa mutare in corso d’opera la forma di un modello immaginato , come possa condurti verso altra conoscenza (coscienza)”:  una Palingenesi dell’ uomo caduto che si compie attraverso stadi successivi di coscienza e creazione , allo stesso tempo ineluttabili e volontari.  
Non solo l’arte si fa in tal modo  rivelatrice al suo autore, come dice Turano,  degli  “aspetti sconosciuti della sua stessa personalità” ma, ben più universalmente, svela  i segreti ultimi, i mondi occulti, gli universi celati a chi ha occhi bendati; palesa e morbidamente scopre , diffondendosi ed espandendosi, gli archetipi comuni ai figli dell’Uomo e si fa palingenesi incarnata nel Segno:  “gli antichi non intendevano fingere quando professavano di credere nella visione e nella rivelazione . Platone era in buona fede e così Milton: essi credevano veramente che Dio visitasse l’uomo” (W. Blake).
Il percorso , come lo stesso artista riferisce,  è obbligato: “il mio unico scopo è nutrire il desiderio di libertà e non ho altri strumenti, oltre l’arte , che mi consentano questo”.
Desiderio di libertà da intendere, nel percorso di Gerry, come desiderio di conoscenza; la libertà che possiede solo chi, compenetrato nella logica ultima delle cose, nulla più desidera , perché nel non avere, tutto possiede.
Libertà è qui Verità , quella Verità che “ vi farà liberi “ . Quindi, nel riferire la libertà alle sue forme espressive che il tempo ha mutato,  si evoca , in realtà,   una libertà  consustanziale all’Essere, immanente e trascendente allo stesso tempo , mezzo e fine , strumento e telos.   Una libertà il cui possesso passa per dirupi e burroni, struggimenti e abbandoni, estasi e deliri, intuizioni e cedimenti;  in un’ alternanza ininterrotta che vede l’artista  recitare la doppia parte di   carceriere e prigioniero, implacabile custode e sofferente mendicante , sempre in bilico tra il baratro irresistibile e la risalita dagli inferi.
E così sembra essere il percorso di Gerry Turano : una catarsi permanente che si snoda da un ante ad un post,  in un inarrestabile e congiunto processo di costruzione e distruzione, di obnubilamento e svelamento, di improvvisi chiardiluna e inaspettati dirupi : “ semplicemente mi volgo indietro per osservare i frammenti abbandonati della mia evoluzione”, dice l’artista.
 Quasi un guardare sé stesso , alla sua interiorità ; così le SCORIE , i FRAMMENTI abbandonati nelle sue vecchie tele , sulle sue vecchie carte , non sono solo i residui antichi di un gesto superato, ma sono , allo stesso tempo, le scorie e i  residui della sua anima ; quei residui e quelle scorie che , solo esistendo e solo abbandonando volgendosi al futuro, consentono l’ascesa verso la Verità/ Libertà che chiama l’artista.
E’ fatale l’abbandono dei ciottoli che ci hanno consentito di percorrere il cammino , che abbiamo raccolto lungo la strada, che abbiamo amato, carezzato, posseduto, che ci hanno ferito  ; è fatale lasciare al loro destino le nostre creature artistiche ; le creature più amate che,  tuttavia  , solo l’abbandono fa diventare parte insolubile dell’ anima:  SCORIE  che si fanno gemme, RIFIUTI  da cui nascono fiori . “ Ciò che appare rottame, disgregazione della forma, disintegrazione di unità , può essere in realtà naturale scoria di costruzione”. Un cammino che si snoda in quel Nulla che ci sovrasta , ma che all’artista appare “ zeppo di roba”;  un Nulla –Pieno la cui pienezza è nostro dovere e nostra sublime estasi cercare.
In una percorso maieutico mai stanco, riguardato con l’occhio rosso  del veggente  , Gerry Turano scava nei cunicoli più reconditi del dubbio , tranquillizzato dalla venuta messianica di “ una nuova fase che deve ancora comprendere” : il Messia arriverà , perché forse è già tra noi ! dubbio che l’artista scioglie nell’unico liquido a lui consentito, abbandonandosi  al solo processo alchemico a lui congeniale : l’Arte .
Inequivoche e  apocalittiche  le sue parole : “ Le mie opere , prima  o poi, mi riveleranno chi sono davvero”. Quel  dubbio , oggi esistente, è condizione essenziale per avvicinarsi alla libertà e che , nel suo ontologico dualismo , si ricompone nell’armonia delle apparenti contrapposizioni quando ci si avvicina “ alle porte della percezione”, come magicamente Aldous Huxley definì l’ingresso nel mondo delle visioni, nel mondo degli stati extra-ordinari  della mente.
Significativo, a tal proposito, ciò che risponde Turano alla domanda “ figurativo-astratto; monocromo-colore; luce –ombra; costruzione –distruzione ; ti riconosci in questo schematico elenco di contrasti”? ; “ di ognuna di queste contrapposizioni sembra che io abbia sperimentato entrambi gli aspetti”,  e poi continua:  “Ombra e luce, l’una è espressione dell’altra. Se l’ombra è protagonista dell’opera d’arte , in realtà stiamo celebrando la luce , scoprendo la positività della sua posizione oscura : è un’esortazione  ad approfondire la conoscenza di ciò che semplicemente appare. Un ansito volto ad andare “ Oltre” ciò che Maia ci consente ingannevolmente di vedere. 
Siamo di fronte alla  consapevolezza profonda che la Verità non si dà assiomaticamente, compiuta e definita in un’unica epifania, che non esistono,  nel percorso  artistico – filosofico apodittiche convinzioni  ( che,  in quanto tali, varrebbero e durerebbero lo spazio di un istante) , ma , al contrario,  si postula un dinamismo intellettuale in cui pensiero e espressione artistica congiuntamente si volgono verso la trascendenza che supera l’effimero e  che travalica l’ingannevole  compenetrandosi  con la superiore armonia.  
Quanto sopra rilevato è manifesto in ogni parola , disegno, scultura, quadro dell’artista , dove mai si percepisce un obbligatorio percorso interpretativo  univocamente dato e univocamente percorribile, assiomaticamente imposto e definitivamente manifesto.
Il segno, e la sua potente evocazione significante , incarna in sé la potenzialità della pluralità delle interpretazioni , attraverso cui a chi guarda è consentito, in una sorta di rivelato “ libero arbitrio”, leggervi ogni possibile contenuto,  riguardato e generato dalla libera interpretazione del “ lettore”.
Un’arte moltiplicante, indulgente, replicante, libera; un’arte che non ha la pretesa di dettare incontrovertibili sensi , inoppugnabili valori , ma che , nella sua permanente vitalità tesa al trascendente , si mostra  immediato viatico di appartenenza alla Molteplicità.
Un’ellissi, dove il centro è unico , ma la distanze mobili da cui il centro si guarda fanno sì che detto centro si riproduca e diffonda in infinite essenze iconografiche, ricca ognuna di esse, di infiniti messaggi.
Fondamentale a tal proposito la poetica della Luce di Turano e le sue “ OMBRE” .
Le ombre, nelle infinite proiezioni che un medesimo oggetto può replicare, divengono oggetti esse stesse. L’ombra non è , così , il replicante invisibile di altro da sé, l’ospite obbligato stretto a ceppi al suo carceriere, il secundus , l’esule , il figliol prodigo; L’Ombra è la prima , la più vera protagonista nella Verità: perché molteplice, non statica, compenetrata nel suo contrario , viva proprio grazie ad esso: la Luce.
Immediatamente è richiamato alla mente il “ contraria sunt complementa” , l’eterno scorrere eracliteo – e le parole “ciò che si oppone converge,  e dai discordanti bellissima armonia” , in un  il panteismo compiuto nella conciliazione sottesa a tutte le apparenti opposizioni ,  dove si attua  “ il matrimonio del Cielo con l’Inferno”.
Ritroviamo nelle parole dell’artista e nello svolgersi della sua poetica l’antica  dialettica platonica, le propaggini neoplatoniche  , le intuizioni di  Swedenborg e Jakob Bohme: “l’uno, il Sì, è puro potere, è la vita e la verità di Dio, o dio stesso. Dio però sarebbe inconoscibile a Se stesso e in Lui non vi sarebbe alcuna gioia o percezione , se non fosse per la presenza del “ no”. Quest’ultimo è l’antitesi, o l’opposto, del positivo o verità ; esso consente che questa divenga manifesta , e ciò è possibile solo perché è l’opposto in cui l’amore eterno può divenire attivo e percepibile “ (J. Boheme, questioni filosofiche,III,2).
Ma anche, in un coinvolgimento cosmico del pensiero , il taoismo orientale “Se si vuole restringere, bisogna ( innanzitutto) estendere , se si vuole indebolire , bisogna ( innanzitutto) rafforzare. Se si vuole far perire , bisogna ( innanzitutto) far fiorire” ( LAO-TZE),  in un’armonia quieta,  disciolta e caleidoscopicamente palesata  nel pensiero dei Grandi.
Un’arte di luci e Ombre, di forma che è sostanza – “nella vera arte la forma è sostanza”- dice il Maestro Turano,  perché   la “sostanza”  si incarna nella forma  e la trans - forma, in un ininterrotto processo alchemico, in “Forma sostanziale”, in  oro rosso, in permanente Rubedo. 
Un’arte di Pensiero e  Parola;  quella Parola impressa a fuoco nelle lettere , anch’essi segni, vivo archetipo di  significati occulti , rinascita e rinnovamento della tradizione cabalistica del linguaggio (Gershom Scholem.
Un’Arte ricca di significato, nutrita di segni , cibata di mistero, di alchimia, di occulto, di dubbio, di ricerca, di tensione,  di deriva, di armonia, di svelamento, ma anche di certezza, quella che l’artista ha già trovato, quella che non smetterà di  cercare.

Roma, 18 giugno 2011

Su Dudici di Flora Restivo

Edizioni del Calatino, 2011

recensione di Marco Scalabrino



Con CIATU del 2004 e con POESSIRI del 2008 abbiamo conosciuto Flora Restivo quale Poeta. Sui temi e sulla forma, sulla progressione e sugli esiti della sua poesia sono stati spesi da più versanti autorevoli e lusinghieri giudizi. Nondimeno eccoci per le mani un suo nuovo lavoro: non poesia, come ci saremmo aspettati, bensì prosa, ancorché sempre in Dialetto. Questa virata merita un esercizio di decifrazione: la nostra è che, attraverso la breccia che la Poesia ha aperto, una regione dell’Autrice fino a quel momento segreta, recondita, inconfessata, quella regione carsica venutasi a creare in tutta una vita dalla sovrapposizione degli strati ancestrale, sociale, culturale, trascinando con sé custodite memorie, esperienze, sentimenti, si sia rivelata e, felicemente assistita dal suo genuino talento, abbia conquistato naturale, confacente sbocco. Una diversa cifra, quindi, una ulteriore opportunità, un aggiunto tramite mediante il quale svelarsi, ampliando l’orizzonte della sua comunicazione. E perciò nessun addio alla poesia, che peraltro ci risulta lei continui a frequentare con dedizione, quanto la chance per adempiere a una ritrovata occorrenza.
Di solito coloro che prediligono la misura del racconto ne allestiscono una serie: Flora Restivo per la precisione dodici; una dozzina di racconti dei quali si elencano in accesso random i titoli: STORIA DI MARIA, 8 MARZU, DDA NOTTI CHI SPARIU LA LUNA, MANU PILUSA, L’ALI DI ANCILU, DUMANI NI PARRAMU, FRANCU, L’EGITTU È SEMPRI L’EGITTU, NOZZI D’ARGENTU, ACCIA E AMURI, LITTRA, CASA E PUTIA. Nomi, date, contingenze. Tuttavia non una mera passerella di eventi, una pittoresca riedizione di campioni, una artificiosa condizione per raccontare e raccontarsi… bensì la restituzione alla collettività di alcune fette del patrimonio memoriale di una generazione, quella nata nell’arco della seconda guerra mondiale, l’invenzione e/o la riproposizione di storie che ci appartengono, l’epifania in chiave catartica di dolorose vicende. Testi che la Nostra ha permeato di tutto il suo temperamento, nei quali ha infuso la sua visione dell’esistenza, ha disseminato per intero il suo animo e che pertanto, benché ciascuno in sé concluso, vanno contemplati nell’ideale collegamento unitario con tutti gli altri inclusi nella raccolta.  
Flora Restivo mostra di essere discente responsabile e di avere tratto profitto dalla lezione di Edgar Allan Poe: ognuno dei suoi racconti il lettore potrà infatti leggere «in un’unica seduta». Tranne in seguito, magari, arrendersi alle vibrazioni: rilevare l’accentuato impiego dell’“a capo” allo scopo di suscitare un ritmo più incalzante; chiedersi se «catuniari» derivi da Catone, nell’accezione di censurare; felicitarsi che Maria «nun po essiri a lu nfernu, datu chi già l’appi nna ssa vita» e soggiorni adesso nel «munnu di la virità»; consultare il dizionario per apprendere il senso di parole quali «vunciasacchetti», «murriuni», «scannalia», «straviarisi», «capizzu», «spinnata»; capitolare di fronte alla sottile amara traboccante ironia, ad esempio in pesci freschi usciti «di lu sarcofagu di Ramessi!», «pruvamu cu Allah, datu chi “addabbanna”, pi ora, nun funziona», «quannu vitti li carrubbi virdi nna l’arvuli, ci parsiru favi»; meditare sulle amicizie “eterne” delle vacanze le quali «a viaggiu finutu, addiu, ma ddà parianu pi la vita»; appurare che il matrimonio fila a dispetto della “bellezza” del partner, ma che laddove esso va a rotoli e i coniugi si separano «fari di patri e matri facili nun è», capita che i genitori non si accorgano del malessere dei figli, di quanto per gli adolescenti «divintari granni è difficili», e che nel dramma, sempre incombente, una madre può addirittura sdoppiarsi: una «di li dui Anni» rannicchiarsi e morire col figlio come a non volerlo lasciare mai, l’altra alzarsi, «si susiu», guardarne il dolce, remoto sorriso, vederne «li vrazza aperti, vistuti di sita bianca» come «ali di palumma» libere di volare senza più barriere in un’abbagliante misteriosa apoteosi di azzurro e sole, quindi ravviarsi i capelli con le mani, straziata e consapevole che l’aspettava «na jurnata veramenti longa»; scorrere una lettera d’amore, «Pi mia fusti tu … nun durau tantu tantu … [ma] nun finiu mai», da Guinness dei Primati, il primo singolarissimo caso di un «discursu curcatu», in cui il redattore/mittente è «tisa a puntu giustu», ha «na matarazzedda di rasu» sotto, «un velu» sul viso, tutt’attorno «qualchi ciuri» e come non bastasse lei di persona consegnerà all’ignaro destinatario la struggente missiva; affrancarsi da una pena trattenuta per decenni: la malattia e la morte, a causa di «na mpudda» e nonostante «Patri Piu scuncicatu», di un giovane l’«occhi di re arabu», circostanze nelle quali l’individuo appare privato di ogni dignità: «Cui è malatu perdi dirittu a l’affruntu, dutturi chi talianu, nfirmeri chi murritianu, senza rispettu, tuttu a luci china, comu si unu finissi d’essiri pirsuna pi divintari na cosa di studiari: un casu clinicu»; assistere a un corteggiamento, che se il racconto è inventato è oltremodo spassoso, se reale è decisamente da sballo, a suon di sedano in luogo delle classiche rose: «un pezzu d’omu, piacenti e finulicchiu, chi teni ‘n manu lu chiù granniusu mazzu d’accia mai vistu»; penetrare la sincerità, l’affezione verso i discriminati, gli sventurati, i vessati e le loro storie, la “fame di un significato nella vita” (E.L. Masters in Spoon River) che attraversa tutta la silloge.   
Lu prufissuri Etilicu, Nzula mustazzola, Caloriu Tagghiaecusi: soprannomi, nomignoli, epiteti. In epoche anteriori li avremmo appellati peccu o nciuria, ché naturalmente tali lemmi sono integrati in un mondo ormai in dissolvenza, in un consorzio umano in disgregazione, in una corte culturale all’epilogo. Endemiche in passato e oggi praticamente scomparse, li nciuri, che sovente venivano “ereditate” dai discendenti di coloro che ne erano stati per così dire titolari, consentivano l’identificazione pronta e indubbia di un casato e di un soggetto. La loro gamma era assai variegata e le origini legate a un mestiere, a uno speciale attributo fisico, a un atteggiamento caratterizzante. Ne riportiamo, solo mo’ di esempio, in prestito da Titta Abbadessa, talune più “colorite”: Ninu causilenti, Angilu cacaligna, Giuvanni funciazza, Matteu mattiddina, Pippinu mustazzu, Miciu favisquadati, Vicenzu pisciafinocchi, Affiu masciuscia, Mariu uccad’aneddu, Neddu micciastotta, Cammelu cicireddu, Ninu manazza, Nunziu menzuculu, Peppi urrocamotti, Turi babbaleccu.       
E ancora, in ordine alla scrittura, è distintiva del Siciliano la costruzione sintattica col verbo in fondo alla frase: «Pasquali sugnu», «nna li ragiunamenti di so muggheri beccu nun ci ni mittia», «beddu avia nasciutu» … differente dall’Italiano, che rispettivamente li rende con: sono Pasquale, nei ragionamenti della moglie non metteva becco, era nato bello.
Flora Restivo, donna e scrittrice, è pianta dalle solide radici e dalle fronde costantemente rinverdite, in cui la prassi dei canoni classici e dei modelli attuali riescono a conciliarsi in un mutuo tollerante equilibrio. Siamo nel terzo millennio, la società si è profondamente trasformata; nei quartieri alti, nei centri storici, nelle periferie una sorta di «speci mitologica» si aggira: «lu cumpagnu [che] nun è né zitu né maritu [ma] mità chissu e mità chiddu» e lei, con attitudine a recepire i segni del tempo, apertura mentale, perspicacia, conia ad hoc il termine, «zima», dalle sillabe iniziali di zitu + maritu, che non ambisce affatto ad acquisire dignità di neologismo bensì solo a risultare un arguto espediente, ed altresì, per l’equivalente muliebre, «zimu», palesemente da zita + muggheri.
«Nun c’eranu stiddi e na nuvula, a la ntrasatta, avia cummigghiatu la luna.» Una nuvola assai opportunamente errabonda, la luna per un attimo spegnendosi, il repentino buio, “complici” di un crimine; un omicidio che essi si adoperano acciocché non venga visto, quasi sparisca, pressoché non esista. Un assassinio è sempre un assassinio; ma tali sono stati la precedente efferatezza che lo ha provocato, il disprezzo lungamente covato e che ha mutato una vittima a sua volta in un carnefice, l’ignominia da un canto perpetrata e dall’altro subita che la Natura, che pure contempla la crudeltà tra le sue leggi, pare comprendere, promuovere, coprire l’uccisore. I frangenti nei quali è maturato il delitto, i due protagonisti principali, la chiusura del caso, non riteniamo delicato anticiparveli; ma qualche indizio sì: l’arma e il pozzo. Una pala. Di più: una «pala bedda grossa», ma non una comune pala grossa, bensì giusto quella utilizzata per il letame, quella «chi sirvia a don Tanu pi spargiri cuncimi», ad accentuare a bella posta la repulsione dell’uno verso l’altro; il pozzo, la trovata di questa short story, «ntanatu, ammucciatu di na macchia e cummigghiatu di na balata», profondo e capiente, «ci tirau na giaca e parsi chi passau un seculu prima di sentiri lu scrusciu», insostituibile «di tannu» in poi per scaraventarvi «tuttu chiddu chi ci dava nociu». E quella sera d’estate, fatto fuori con un solo prodigioso colpo l’uomo e il suo fido amico, sbarazzatosi del cattivo di rito e dell’unico testimone che avrebbe potuto “parlare”… richiusone il coperchio «la luna avia scumparutu arrè».

sabato 25 giugno 2011

Elvis Spadoni in mostra a Casa Raffaello, Urbino dal 26 giu




v. anche http://narrabilando.blogspot.com/2011/06/elvis-spadoni-saludecio.html

Pace e non solo (di Marco Guzzi)

Carissime amiche e carissimi amici,

una delle cose su cui mi pare ci sia maggiore consenso oggi, almeno nel mondo occidentale, è che la pace possa essere costruita solo con mezzi di pace.
Credo che ormai una solida maggioranza dei popoli europei non ritenga più valida la massima latina: si vis pacem, para bellum
.
E credo anche che ci sia una crescente consapevolezza che la pace nasca innanzitutto dal cuore dell’uomo.

Per un cristiano poi questa verità dovrebbe essere evidente.
Papa Benedetto la ha ribadita con forza nel suo primo libro su Gesù: “La discordia con Dio è il punto di partenza di tutti gli avvelenamenti dell’uomo; il suo superamento costituisce il presupposto fondamentale della pace nel mondo. Solo l’uomo riconciliato con Dio può essere riconciliato e in armonia anche con se stesso, e solo l’uomo riconciliato con Dio e con se stesso può portare la pace intorno a sé e in tutto il mondo.”

Ma anche in ambito laico, sulla scia degli insegnamenti di Gandhi o di Martin Luther King o di Nelson Mandela, sta penetrando la convinzione che la pace non sia solo la mèta di un cammino di autentica liberazione, ma anche il metodo da seguire passo dopo passo.

Tutto bene allora? Bè, direi proprio di no.
Il problema è che queste convinzioni vengono quasi immediatamente dimenticate e messe da parte subito dopo essere state proclamate con enfasi. Invece di diventare il fulcro dinamico e drammatico delle nostre giornate, l’interrogativo inquietante e costante: ma io sono per davvero riconciliato con me stesso? e quindi il fuoco vivo di una trasformazione radicale di tutti i metodi di formazione e di incontro tra le persone, questi principi vengono dati per scontati, e accantonati, continuando tranquillamente a bypassare
proprio il punto cruciale della questione, e quindi proseguendo il più delle volte a rinforzare le proprie scissioni interiori, e di conseguenza a fare la guerra nei modi più sottili e variegati.

Così nelle parrocchie, ad esempio, o nelle congregazioni religiose o nelle associazioni cattoliche si dà per scontato che ciascuno sia “riconciliato con Dio e con se stesso”, come dice il Papa, senza verificare quasi mai lo stato reale del cuore delle persone, senza comprendere fino in fondo, né tantomeno favorire e accompagnare l’arduo cammino che questa riconciliazione richiede. Ci si dà subito da fare, invece, frenetica
- e quindi spesso egoica-mente, ci si proietta subito fuori di sé, in progetti sociali o politici pur nobili e necessari, senza però chiedersi se questi cristiani così attivi siano per davvero incardinati in un cammino di autentica pacificazione interiore, o stiano invece agendo in modo compensatorio e forzato, sulla base di qualche antica ferita, o frustrazione, o rabbia, accumulando così dolore e sensi di colpa, e cioè aggravando proprio qualche grave conflitto con se stessi e quindi con Dio.

E questo provoca poi inevitabilmente la disaffezione di molti, la depressione di tanti ambienti cattolici, la repressione dei sentimenti, e la scarsa efficacia delle proposte.

In ambito laico poi si può arrivare a vedere direttamente pacifisti violenti, pacifisti amici di associazioni terroristiche, pacifisti che odiano con tutto il cuore i nemici di turno (d’altronde negli anni ’50 Stalin non era per molti militanti “pacifisti” il padre della pace?), e così via. L’odio poi, miscelato in salse varie, è molto presente perfino in tantissimi militanti cattolici, e tra cattolici di diverso orientamento.
E ciò avviene senza provocare alcun interrogativo o scandalo, e cioè in un’assurda e paradossale “buona coscienza”, come se si potesse estendere la pace, e cioè lo stato di unificazione spirituale del tutto, rimanendo in una condizione interiore di separazione e di guerra…

Gandhi o Cristo, insomma, assunti però a dosi omeopatiche, e solo quando ci fa comodo.
Per fare un solo esempio, non credo che alla platea quasi sicuramente in buona parte “pacifista” dell’Europride, che celebrava l’amore sotto l’egida sacerdotale di Lady Gaga, possa piacere molto l’idea gandhiana che ogni sessualità non finalizzata alla procreazione costituisca di per sé una violenza contro l’essere umano non meno grave della guerra, e quindi un attentato continuo alla costruzione di una autentica pace…..

Chi può stabilire d’altronde il contenuto e il livello di gravità di ciò che è violento, e quindi l’elenco di ciò di cui ci dobbiamo liberare, per incamminarci verso un mondo (interiore e globale) di pace? E’ più violenta, ad esempio, l’energia nucleare o l’aborto di massa? L’inquinamento atmosferico o la produzione e l’uso “scientifico” di embrioni umani? Il fondamentalismo aggressivo di Padre Livio o il nichilismo ateo di “Repubblica”? L’omofobia o la cristianofobia? L’insulto diretto o la chiacchiera buonista? Il grido o il silenzio omertoso? La corruzione dei politici o la pubblicità ossessiva dei programmi che combattono la corruzione? Il precariato giovanile o il sistema di consumi che rende possibile di dare 2 milioni di euro al conduttore che contesta il sistema, il quale richiede ovviamente proprio la precarizzazione del lavoro?

Dov’è la testa del serpe della violenza?
Dove, a quale profondità dobbiamo tagliare per estirpare l’infezione, invece di propagarla?

Ora è evidente che solo una persona profonda
-mente radicata nel cammino della propria integrazione/pacificazione interiore può discernere con una certa precisione tutti i germi della violenza senza parzialità, e smascherare gli spiriti delle tenebre in tutte le loro molteplici e subdole configurazioni.
E così torniamo alla domanda di partenza: chi si occupa di curare questi processi di reale e graduale unificazione? Di metterli al centro di una nuova progettazione, anche politica ed economica, di umanità?

Dobbiamo perciò prendere molto più sul serio ciò che crediamo di credere, e che cioè soltanto un cuore in via di pacificazione possa costruire intorno a sé circoscrizioni di mondo più pacificate, chiedendoci innanzitutto se sappiamo con una qualche precisione che cosa significhi pacificare/unificare il nostro cuore, e quindi essere riconciliati con noi stessi e con Dio, e se siamo per davvero disposti a metterci su quel non facile cammino
.

E questo implica di fatto un rinnovamento radicale degli itinerari iniziatici in ambito cristiano, e un rinnovamento altrettanto radicale dei cammini di formazione politica in ambito laico.
Oltre all’apertura di una nuova stagione di dibattito culturale proprio su questi temi ormai ineludibili e non più rinviabili.

Finché non si aprirà questo tempo nuovo, questa vera e propria rivoluzione culturale, continueremo a sfinirci in mille e mille rivoli mentali sempre più microscopici e inquinati, falsa
-mente pacifisti e vera-mente egoici, bellici, e mortuari.

E’ in questo punto di urgente rinnovamento antropologico che nascono i Gruppi Darsi Pace, proprio per contribuire a realizzare una inedita correlazione tra liberazione interiore e liberazione/pacificazione del mondo
, e cioè per tentare di rendere più reali i cammini di unificazione/pacificazione del cuore, affinché le azioni e i progetti che ne sgorghino siano realmente capaci di costruire la pace.

In questa prospettiva vorrei proporvi come Nuova Visione nel mio sito www.marcoguzzi.it
<http://www.marcoguzzi.it/> il saggio, uscito nell’ultimo numero della Rivista Vocazioni, pubblicata dal Centro Nazionale Vocazioni della CEI:

L’educazione dell’umanità nascente
La pedagogia umana nel vortice
di una svolta antropologica


Stasera, venerdì 24 giugno, alle ore 18.30, si svolgerà, presso Palazzo Valentini in Roma, la premiazione del Premio Internazionale M. Luzi, alla quale interverrò, insieme a M. L. Spaziani, S. Zavoli, e M. Leombruno.


Sabato 7 maggio ho partecipato ad una trasmissione di Uomini e Profeti, su Radio Tre, condotta da Gabriella Caramore, su Tagore e sul nostro tempo apocalittico, a partire dal mio ultimo volume “Dalla fine all’inizio – Saggi apocalittici”.

Potete ascoltare la puntata a questo indirizzo:

http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-53f85857-0c94-4023-9192-de12a68a5e45.html <http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-53f85857-0c94-4023-9192-de12a68a5e45.html>



Vi ricordo infine i prossimi due appuntamenti dei nostri Gruppi: dal 30 giugno al 3 luglio a Campello sul Clitunno (0743.521097):

Con tutto il cuore
Dalla follia del cuore scisso
all’unificazione dell’uomo nuovo


e dal 9 all’11 settembre ad Albino (Bg) (info. 035.758740):

Ricominciare
Pensiero, autoconoscimento, meditazione e preghiera
per rinnovare la propria vita e il mondo


Grazie dell’ascolto e tanti affettuosi auguri di mettere sempre al centro della vita quotidiana la ricerca della pace, di quello stato di grazia che non lo dà il mondo, ma solo lo Spirito che il Cristo, Nuova Umanità in noi, respira nel nostro cuore, per renderci felici.

Marco Guzzi