martedì 31 gennaio 2012

Europa, la nuova parolaccia

di Claudio Scozzesi

Voler trasformare gli USA al modo dell'Europa sarà con tutta probabilità, dicono gli osservatori politici, la linea d'attacco repubblicana contro Obama alle prossime presidenziali USA, sia che Mitt Romney o Newt Gingrich, i due candidati repubblicani rimasti in corsa, ottenga la nomination.
Europa è così diventata nel linguaggio politico americano una parola sporca, che si getta in faccia a sinonimo di "sei un incapace".
Per la verità ricordo negli USA già di 20 anni fa che alla eterna domanda "Where are you from - da dove vieni", a qualcuno che incautamente rispondeva "European - iuropìan, cioè europeo", spesso l'interlocutore americano rispondeva storpiando la pronuncia, cosa che magari non veniva avvertita da chi aveva scarsa dimestichezza con la pronuncia, "Ah, iu'ar piin' - tu sei un piscione", per dire vieni da un posto di buoni a nulla (infatti, alla domanda si preferiva di gran lunga rispondere italiano o tedesco).
Ebbene, gli USA sono da sempre per un mondo con poche regole (ne hanno infatti pochissime e ferree, noi tantissime non osservate), e vogliono un mondo così soprattutto in campo economico. Sono perciò molto più vicini alla Cina, che ne ha ancor meno e perciò più facile da portare ad una concezione della economia mondiale come la propria, di quanto siano mai stati all'Europa, che invece vuole regole mondiali più pesanti.
Anche se la crisi è stata provocata da loro, nella disunione politica dell'Europa hanno trovato il bandolo per ribaltare su di noi la frittata  e di fatto farla franca.

Non illudiamoci: è l'amministrazione di Obama che ha studiato e messo in atto questa strategia contro l'Europa e l'uso politico ed economico che viene fatto delle agenzie di rating ne è la chiara dimostrazione.

Allora? "A la guerre comme à la guerre".
La guerra fredda, le guerre contro il terrorismo, tutte marcano la volontà americana di tenere l'Europa in posizione subordinata e così è anche per la presente guerra economica. Fatta fuori l'Europa economicamente (la Russia lo era stata sul piano tecnologico e dei costi dell'impegno militare)  gli USA potranno allora vedersela faccia a faccia con la CINA, sul piano di un mercato globale su poche false regole. Potrà ben essere la Cina a produrre i beni (vediamo bene che siamo già su questa via), disastrando ulteriormente il proprio ambiente, saranno gli USA a goderne i frutti (e i cagnolini le briciole sotto al tavolo). Il precedente accordo sull'ambiente di Copenaghen, fatto da Obama con la Cina e contro l'Europa, ha marcato il cambio storico della strategia di alleanze americana (intanto però la Cina si sta armando potentemente....).

Due sono le vie che può seguire l'Europa:

  • ritorno a tanti piccoli  stati con monete risibili, diventati floridi dal dopoguerra in poi sulla scia  degli USA e loro satelliti.
  • o creazione della  nazione Europea, con non solo una moneta comune, ma una strategia, un  esercito, economia, istruzione, sanità, ecc, e una lingua intereuropea,  comuni, indubbiamente una Europa federale.
I cambiamenti sono possibili solo se si introduce un forte cambiamento culturale. Nel momento attuale si vede invece a livello politico, non solo nostrano proporre, un'ottica addirittura regionale. In questa visione il separatismo, la dimensione territoriale circoscritta sarebbero una strategia che difende dalle crisi e anzi pone le basi per un rilancio economico in un'economia globalizzata.
Un'ottica forse di breve periodo ma quale ottica fondante per le generazioni a venire?

Dire Europa, come oggi negli USA a mò di parolaccia, è perciò anche questo, culturalmente un modo per affossarla: ma anche qui da noi, dire Europa (intendendo questa Europa) non è diventato un pò come ascoltare una parolaccia?
 

lunedì 30 gennaio 2012

“Azioni & Natura Umana” – Leonardo Caffo

Recensione del 30/01/2012 di Andrea Corona pubblicata in Temperamente
caffoPer noi “temperini” è sempre un piacere seguire gli autori che recensiamo, specie se interessanti come Leonardo Caffo, il giovane filosofo che abbiamo conosciuto qui. Se il suo precedente saggio affrontava la questione dei diritti animali, è pur vero che l’auspicio del libro era quello di una liberazione totale, e non solo animale, da ogni relazione di dominio. Ed ora, con Azioni & Natura Umana (Fara Editore), direi che è stato compiuto il passo successivo. Le domande poste da Caffo ruotano, come annunciato nel titolo del libro, attorno ai concetti di azione e natura umana e della loro possibile correlazione. Asserendo, dopo molti passaggi (fra i quali un avvincente diatriba fra Chomsky e Foucault), che la natura umana si configura sostanzialmente come un’ontologia del possibile, ecco allora che «l’uomo diventa essenzialmente l’insieme delle sue possibilità d’azione». Il discorso, a questo punto, si sposta su un altro piano e la nuova domanda che si affaccia è quanto e se abbia ancora senso parlare di libertà all’interno dei sistemi capitalistici, dove «le nostre azioni sono limitate entro un numero di scelte già preposte». Per provare a rispondere, l’autore si richiama alla biopolitica, alle scienze cognitive e alla filosofia (filosofia morale, antropologia filosofica, filosofia dell’azione): «la cultura non è diversa dalla natura se non viene deviata da quei processi storici che, come il capitalismo, minano proprio le risorse fondamentali necessarie per lo sviluppo di una vita degna di essere vissuta».
Questo passo mi ha fatto pensare al «principio della qualità della vita» e alla «libera progettualità umana» presenti nelle opere di Eugenio Lecaldano, un esponente del movimento etico e bioetico italiano noto anche per il rigore formale delle sue argomentazioni (rigore tipico di quanti conoscono, come lo stesso Caffo, la filosofia analitica). Ma il paragone potrebbe risultare arrischiato, dal momento che il relativismo e il pluralismo culturale assumono forse, in Lecaldano, dei connotati più utilitaristici rispetto alla posizione più radicale di Caffo, per il quale una vera fioritura della vita umana ha ancora da venire: se «la nostra natura è scegliere tra infiniti stimoli per agire di conseguenza», il marker dell’umano consisterà, come detto, nelle sue possibilità d’azione. Ma, dato che il possibile è per sua stessa essenza diversa dal reale, e dato che i fatti sociali, così come li conosciamo oggi, sono contraddistinti da una non naturalità, Caffo propone, a mio avviso, una concezione non troppo distante da quella «ontologia del non-ancora» di cui parlava Ernst Bloch e che si esprime nell’uomo come una tensione utopica di speranza verso il futuro. Anche se Caffo respinge a priori l’eventuale “accusa” di essere un utopista (la strada che conduce all’approssimarsi di natura e cultura non è scevra, infatti, da una qualche forma di male), il paragone con Bloch mi sembra plausibile se si considera questa frase di Marxismo e utopia: «L’utopia non è fuga nell’irreale; è scavo per la messa in luce delle possibilità oggettive insite nel reale e lotta per la loro realizzazione».
E il messaggio del libro, forse, è proprio questo: non possiamo mai liberarci di un modus vivendi che ci allontana sempre più dalla nostra natura finché non iniziamo a porre un paradigma alternativo a quello proposto – o meglio imposto – delle società capitalistiche, in cui l’uomo è sempre più un mero funzionale tecnico. Ciò che occorre sono delle nuove categorie di pensiero «per quelle azioni che potrebbero avvenire in un contesto migliore, e per tutte quelle che sembrano ridare alla cultura una parvenza di natura». Un saggio, Azioni & Natura Umana, non certo semplice; ma, in un panorama zeppo di libr(acc)i su Facebook e sul Grande Fratello, ben vengano dei testi come questo, che nobilitano il genere, ultimamente in calo, della saggistica filosofica.

Andrea Corona

Leonardo Caffo, Azioni & Natura Umana. Un breve viaggio tra complessità e filosofia della vita, Fara Editore, Sia cosa che, Rimini 2011, 116 pp., € 12,00.

giovedì 19 gennaio 2012

Su El Djablo di Roberto Morpurgo

Puntoacapo, Novi Ligure, 2009

 Nota recensiva del curatore Ivano Mugnaini 


I racconti di Roberto Morpurgo hanno la capacità di collocarsi in quella dimensione specifica, quella terra sottile e fascinosa, compresa tra gli oceani della verità e della fantasia. Il rischio potrebbe essere quello delle sabbie mobili: ossia la perdita della consistenza delle due dimensioni specifiche, quella concreta e quella che potremmo definire onirica. Ma il vantaggio, i frutti potenziali di quel suolo specifico sono notevoli: il potere dell'immaginazione nutre di sé anche la dimensione reale, trasfigurandola, mettendone in luce aspetti di rigogliosa esuberanza. Ebbene, grazie ad una serie ampia e generosa di dettagli che contribuiscono ad evocare in modo possente il "colore locale", Morpurgo sa evitare benissimo il rischio a cui si è fatto cenno e sa esplorare e coltivare altrettanto bene le potenzialità del terreno narrativo che ha scelto e generato.
Si tratta di un gioco di prestigio, un inganno, un trucco, le carte si muovono veloci, la mano è più rapida dell’occhio. E ciò che sembra non è, o, almeno, non è come si pensa possa e debba essere. E, nello stravolgimento, nel ribaltamento delle attese, c’è lo spazio della sorpresa, la visione del reale e dell’immaginario, del vero e del falso, la cronaca di mondi possibili e la metafora propria di ogni arte. Morpurgo è autore che ragiona costantemente su ciò che scrive, e, nell’atto di pensare, crea di nuovo, rimescola ulteriormente grafemi, significanti e significati, descrizioni e metafore. Ne sono ulteriore prova e conferma le parole con cui, commentando il suo El Djablo, sposta i confini, esplora nuovi orizzonti di senso e suggestione, pur restando nell’alveo di una creazione che ha nella sua natura multiforme e polisemica uno dei suoi punti di forza.

Erratico come don Chisciotte, patetico come Sancho Pancha, il protagonista che diede il suo nome a questo libro – l’ubiquo e omonimo protagonista di El Djablo: non consiste se non in una lettera – un lapsus alfabetico. Fedele alla propria origine, il diavolo di cui narra il quasi omonimo libro si conferma buon consigliere, nonché ottimo commensale di avventure. Diciannove in tutto, a parte la sua stessa, la meno intrinseca e significativa. È altresì raro che un libro scelga una lingua per elogiarne un’altra, e segua un sentiero per incaricarlo di dimostrare l’assenza del Santuario (assenza riscattata poi però dalla invadente  tenacia del Pellegrino). Santuario che il Lettore ritroverà in forma di simulacro nelle rade pagine di Maison la Muerte; Pellegrino che incontrerà in ogni riga di El Fátima; sentiero che seguirà,  perdendovisi, fra i meandri dei molti El (El Maquillador, El Coquillador, El Mono, El Borracho…) che – quasi a rinnovarci il ricordo dell’omonima pellicola di Luis Buñuel – monotoni annunciano la goffa e inemendata mascolinità dei personaggi nominati. El Djablo è un libro in prosa ma non un libro di prosa: è, infatti e opportunamente, una lunga versificazione dello spazio che di esso spazio – della sua originaria orizzontalità – profitta e sottilmente abusa. Il tempo vi scorre lento, o frenetico ma come un’ondina di risacca, e ignavo o consolatorio come la foglia che al posto della Mela sarebbe caduta su Isaac Newton,  non avesse egli preteso di emulare Guglielmo Tell. Ecco un eroe che la pur sempre lodevole Lettrice mai troverà in queste pagine unanimi, cosmopolite o ispaniche che dir si voglia: e perciò non ticinesi. Vi fa difetto la serietà cronografica del Logos addotto a surrettizia giustificazione dell’Ingranaggio: vi mancano i banchieri, i bancari, i bancarottieri. I fallimenti di cui narra El Djablo sono infatti sempre misticamente vittoriosi: né alle sue vittime si potrebbe chiedere miglior riscatto che quello di essersi lasciate enumerare, escutere, elogiare.  E le vittime di cui discorre non son poi se non vittime di sé stesse, sebbene mai, guai a pensarlo, capaci degli ilari triviali truismi che ammiccano nell’astemio Chi è causa del suo mal, pianga sé stesso. Carmen, Estèban, Estrella, Ninguno - l’asino di Amecameca, la scimmia sacrificale di El Mono…piangono per la gioia di una vanità iperbolica – sovrana – priva di senso e così di rimedio. Non certo per illustrare, con il Proverbio, il proverbiale cinismo dei Popoli alloggiati dal Globo a sud di Thule.


La “nota creativa” dell’autore lo ribadisce: i racconti di El Djablo hanno luogo in un mondo "ispanico" in senso ampio e ben connotato: c'è il Messico, gli Aztechi, gli indios e i conquistadores, c'è Cuba, l'isola di sogno, aspra e autentica, c'è il dolore e le vicende di sopraffazione, lo scontro tra civiltà diverse.  Morpurgo sa dare un aspetto credibile alle storie che narra: inserendo brani in lingua spagnola e note in cui spiega con cura tutti i risvolti delle storie, compreso il legame tra verità e leggenda, quel sapore specifico di un mondo che combatte la pena e il sangue versato costruendo, con pathos ed ironia, una realtà parallela, non meno autentica, non meno assetata di vita, fino al punto in cui il realismo si fa magico, e le due dimensioni si fondono, creando mondi possibili, privi di confini, non più soggetti alle leggi della logica e del tempo. Coerente con il progetto e l'intento di condurre il lettore in questo mondo esotico eppure concreto e verosimile, Morpurgo plasma in questi suoi racconti un linguaggio ad hoc, scorrevole e tuttavia ricco, come un albero con foglie e fiori coloratissimi. Alterna a frasi di pura e semplice descrizione degli eventi, altre espressioni che costantemente ci chiamano in causa, invitandoci ad accettare il gioco e la sfida narrativa per eccellenza, quella tra immedesimazione e straniamento. È un linguaggio forte, quello di Morpurgo, adatto a rappresentare le vicende di terre in cui tutto, il sole, i paesaggi, gli errori e gli orrori, i sogni e le verità, appaiono giganteschi, colossali. C'è sangue e sofferenza, in molte delle storie narrate, ma, ugualmente vivida e nitida, c'è un'ironia più che mai essenziale, salvifica. Perfino il male, immenso anch'esso, viene inglobato nel panorama e nel solco narrativo: diviene simile ad un toro infuriato lanciato contro il sogno, contro la volontà dell'uomo di vivere e gioire. Ma, come per le popolazioni indios minacciate dall'invasione spietata di popoli stranieri, Morpurgo lo indica, lo fa comprendere tra le righe, la salvezza è in ciò che nessun potere oppressore può sterminare: la fantasia, la capacità di creare storie e leggende, inventate eppure più vere del vero: la salvezza, se c'è, è nella parola: "La Aleph es verdad, es siempre una A... entiendo un Principio... serà el Fin a maravillarlos todos", scrive Morpurgo. La parola si muove tra verità e sorpresa, tra il reale e l'inatteso. E questo libro di racconti conferma, con passione ed efficacia, quanto ampio e fertile possa essere il confine che separa ed unisce queste due dimensioni.


Su Liquida di Carla Cirillo

Faraeditore, Euro 11,00

recensione di Monia Gaita

È una scrittrice raffinata Carla Cirillo, capace di coadunare nelle proprie sistematiche e sorvegliate considerazioni, l’insanabile coppia opposizionale amore/impossibilità gorghiane dell’amore. In questi deliziosi racconti il tè, il caffè, la cioccolata calda e i liquori non solo consacrano precisi momenti della giornata campiti a colori cangianti e vivaci, ma istituiscono e assicurano una vera e propria scienza infallibile della liquidità naturale e sensibile. Agognando di cogliere il diàpason della totalità del reale, la narratrice supera la propria agnosìa visiva, acustica e tattile di certezze, affidandosi all’aroma sfrontato, cannoso, ambiguo, erbaceo e terrigno delle bevande assaporate, illudendosi o convincendosi forse, che ingerirle le consenta di accedere ad incidenze di soave leggerezza mai sperimentate (v. pag. 19): “Bevve il nuovo caffè. L’amaro della buccia d’arancia si impose su quello dell’arabica diffondendosi rapidissimo sul palato e nel naso. Se l’intento della nuova bevanda era quello di ricordare un agrumeto, era andato a buon fine. Per alcuni istanti il giardino si riempì di arance ai suoi occhi: alberi grondanti di arance piene e mature, arance in ceste sui tavoli, un pavimento di arance sulla ghiaia del giardino e un cielo bombato di arance.” Così, se il tè sa: “Di buono, di bosco, (v. pag. 9) come se si potesse bere un tratto di bosco, alberi e terra filtrata compresi” la pratica di gustarlo in ogni stagione, si abbina ad un sottile, diafano piacere iterativo, come un drappeggiato abito corporeo e mentale alla bellezza che non muore (v. pag. 12): “Magari mille altre cose ci abbandonano, persone e volti che si perdono, ma qualcosa resta. Una abitudine buona. Un modo per inanellare i giorni, altrimenti persi come un filo di perle che una donna portava intorno al collo e che una sera si ruppe, lanciando in terra una cascata di palline bianche.”
Talete di Mileto, filosofo della “physis”, sostenne che il principio originario di tutte le cose fosse l’acqua; qui l’elemento scorrevole include allegoricamente la simmetrìa e dissimmetrìa dei sentimenti umani, effondendo dalle righe il desiderio di comporne e distenderne dissìdi e incongruenze, rendendoli fiumali, invariabili accordi senza fine. Ma il libro è anche un invito, contro i vasi incrinati della felicità, a dissetarci alla gestuazione rituale della semplicità del quotidiano, incollandoci alla magìa del lento osservare, del calmo sorseggiare, quasi a risolvere lo scollamento profondo tra interno ed esterno. È anche questo, credo, il tentativo di ricomposizione dell’essere che Carla Cirillo coltiva, unitamente a quello di una compiuta compenetrazione col Tutto.  
“Vorrei bere questa donna liquefatta nella mia tazza” – dice il protagonista del racconto a pag. 36 – benché il sistema iconico acquattato e formulato nel messaggio traduca, condensandolo, il suo e il nostro sogno di integrarci con ciò che ci circonda, deglutendo differenze, distanze, contenuti e complessità.

lunedì 16 gennaio 2012

Due Mondi per Michael Ricciardelli

dr. Vincenzo D’Alessio e G.C. “F. Guarini”

Si è svolto ieri, quattordici gennaio, a Solofra, città natale in provincia di Avellino, il primo convegno internazionale di studi sulla figura del sacerdote, e letterato, Michele (Michael) Ricciardelli.
L’incontro ha avuto luogo nell’antico Palazzo Orsini, oggi sede municipale, nella prima mattinata, con la folta presenza dei giovani studenti del Liceo Scientifico Statale “V. De Caprariis” sede distaccata di Solofra, accompagnati dai loro docenti. Sono convenuti il chiarissimo professore Mario Mignone e Luigi Fontanella, della Stony Brook University of  New York; e il chiarissimo professore Sebastiano Martelli della Università degli Studi di Salerno. Erano presenti i famigliari dello scomparso e le autorità civili e religiose.



Lugi Fontanella (sx) e Sebastiano Martelli


Vincenzo D'Alessio (sx) e Mauro Mignone


Promotore della manifestazione il Centro Studi “Pascal D’Angelo” di Mercato San Severino, diretto dal dottore Antonio Corbisiero, moderatore del convegno e dal Gruppo Culturale “F. Guarini”, di Montoro Inferiore, il quale ha chiesto ed ottenuto la collaborazione della Casa Editrice “Fara” di Rimini, che ha inviato delle pubblicazioni in dono agli studenti partecipanti al convegno; della rivista internazionale “Sinestesie”; del Premio Letterario “Civetta di Minerva”; del “Centro Studi della Poesia del Sud”; del mensile “Solofra Oggi”; della biblioteca pubblica “Monsignor Michele Ricciardelli”; dei poeti che l’hanno conosciuto nelle edizioni del PremioNazionale Biennale di Poesia “Città di Solofra”.
Il maggiore contributo umano e letterario è stato portato dal professore Mario Mignone, oggi direttore della rivista “Forum Italicum” fondata nel 1967 da don Michele negli Stati Uniti d’America, il quale ha fatto conoscere ai presenti al convegno l’immensa forza creativa del Nostro in campo letterario, le amicizie sincere tenute con i maggiori scrittori, poeti e critici letterari del Nocevento, non solo italiano, e l’umiltà che promanava dalla sua figura di sacerdote retto e generoso, fiducioso nell’Umanità redenta dalla Fede Cristiana, pronto a farsi da parte per consentire ai suoi giovani studenti, ai neo scrittori, di aprirsi una strada di lavoro e di conoscenza nella vita. 
Mario Mignone ha tracciato, come non era accaduto a dodici anni dalla scomparsa del Nostro, i lineamenti di un meridionale tenace e solare, nell’America degli anni Sessanta, capace di mediare  Due Mondi a confronto:figlio di una Italia povera e tormentata, dopo il Secondo Conflitto Mondiale, alle prese con la ricostruzione e l’America delle promesse e speranze, non facili da realizzare. L’intervento di Mignone ha rafforzato l’immagine di don Michele quale uomo puro, sincero, e letterato di grandissime qualità, ancora oggi tutte da scoprire e tramandare in una solida monografia.  “UNA LUNGA FEDELTÀ” alla missione spirituale, letteraria e umana, tanto è emerso dal primo intervento nel convegno.
Il chiarissimo professore Luigi Fontanella, poeta, scrittore, critico letterario di fama internazionale, ha tracciato anch’egli la figura di letterato di don Michele, specificando di non averlo mai conosciuto di persona, soltanto di avere scambiato più di una telefonata, che  ha permesso di elaborare alla sua fervida immaginazione questa figura: “Essenzialmente schivo, Ricciardelli, mi suggeriva l’immagine di un uomo di altri tempi, con una sua dirittura morale che egli aveva saputo ben coniugare con l’attività di docente, di religioso, e di solerte direttore editoriale.”
Fontanella ha dedicato alla memoria di don Michele, a conclusione del suo intervento, dei versi stupendi che riportiamo per interno:
Da Buffalo a Solofra ancora svolazzano,
amico sconosciuto, sogni pensieri illusioni…
Come me e tanti altri nostri gemelli

non fosti tu a intraprendere quel viaggio,

tu che seguisti nell’Altro il cammino del sole

facendo della tacita sofferenza

la tua umana condizione.

Letteratura e Vita non sempre camminano insieme

e le parole non dette sono, purtroppo,

un diario aperto a qualunque interpretazione,

anche truffaldina e crudele,

contro il Tempo-assassino, contro ogni destino.

Oggi però non zittiscono quelle illusioni, quelle

che tu, Ricciardelli, sconosciuto amico,

sapevi accendere con i tuoi silenzi

e la tua scarna parola.

L’intervento del chiarissimo professore Sebastiano Martelli ha tracciato gli anni che don Michele ha trascorso a Solofra, dopo il suo rientro nel 1980, mettendosi in contatto con l’Università degli Studi di Salerno, scegliendo Martelli quale interlocutore privilegiato con il quale scambiare progetti e i disagi di una società  italiana tanto diversa da quella “americana” lasciata alle spalle.
Gli studenti del Liceo “De Caprariis” hanno dato luogo al dibattito e i famigliari di don Michele hanno concluso con un affettuoso intervento, chiedendo alla Città di Solofra di onorare la memoria del parente scomparso e di fare tesoro dell’esperienza dell’emigrazione vissuta, dallo stesso,  nel lavoro che oggi lo rende un’anima bella nel panorama internazionale dei Giusti.
Libri di Fara e del Grappolo. Accanto a Vincenzo D'Alessio:
Maria De Chiara e Raffaella De Maio, archeologa
 
Monsignor Michele Ricciardelli: l’uomo.

Abbiamo conosciuto don Michele Ricciardelli dopo il catastrofico terremoto del 23 novembre 1980. Egli era nato a Solofra il 9 agosto 1923, in via della Fortuna, il padre Michele era conciapelli e la madre Nocera Maria Teresa era casalinga. Emigrò in giovane età negli Stati Uniti d’America dove venne consacrato sacerdote l’8 dicembre 1952 dal vescovo Claudio Colling. Fu inviato come missionario in Brasile dove lavorò per circa cinque anni. Successivamente chiese ed ottenne di insegnare Lettere nelle Università di Stato americane. 
La motivazione che spinse don Michele a tornare nella sua città natale fu il dolore di fronte alle vittime del terremoto e la profonda consapevolezza che il suo aiuto sarebbe valso a sollevare, dallo  stato di frustrazione e smarrimento, i giovani. Principalmente a loro si rivolse l’impegno sociale del Nostro: iniziò tenendo dei corsi di inglese gratuito coadiuvato dall’Accademia Solofra; migliorò, con profonde innovazioni strutturali, la biblioteca civica Renato Serra; fondò l’Associazione  “Orizzonte 2000”; offrì in profonda umiltà la sua vasta Cultura alle associazioni presenti in quel momento sul territorio. Tra queste c’eravamo noi del Gruppo Culturale Francesco Guarini nato pochi anni prima, nel 1976.
Quell’incontro ha segnato, per me, una svolta unica nella  conoscenza: avevo davanti un professore universitario, portatore di una vastissima Cultura, umile al punto da farsi semplice uomo in mezzo ad uomini più giovani di lui. Fu così che don Michele realizzò la presentazione alla prima antologia poetica del Premio Nazionale Biennale di Poesia “Città di Solofra” nel 1984, giunto alla quinta edizione, sottolineando con queste parole l’impegno: «È mio dovere premettere che trovo oltremodo utile, interessante, lodevole, ed esemplare, l’iniziativa – per quanto io sappia la prima in sede di premi letterari – del Gruppo Culturale “Francesco Guarini” benemerito patrocinatore del Premio, di pubblicare una antologia con una o due poesie di ogni poeta che ne ha sottomesse più di due, senza distinzione tra vincitori e non vincitori.»
Negli anni, il Nostro, mi permise di seguire da vicino le sue intense attività letterarie, consentendomi di seguirlo in incontri nazionali dove convergevano i migliori autori della nostra Letteratura Italiana. Indico soltanto alcuni autori conosciuti in questi incontri: i poeti Silvio Ramat, Piero Bigongiari, Giorgio Caproni, Maria Luisa Spaziani, Margherita Guidacci, Roberto Mussapi, Luciano Erba e Benito Sablone. Gli scrittori Michele Prisco, Giose Rimanelli e Giorgio Bassani. Inoltre i   chiarissimi professori Sebastiano Martelli e Luigi Fontanella, seduti oggi  qui, nella città natale del Nostro, per ricordarlo insieme.
Sono tanti i ricordi, le emozioni e i dolori che accompagnano i quasi vent’anni di vita di don Michele in mezzo a noi. Vorrei ricordare, senza stancarvi, solo alcuni aneddoti peculiari legati al connubio letterario con il Nostro. Il primo è legato alla sua infanzia, quando avendo lo zio calzolaio, portava le scarpe finite ai loro proprietari. Egli doveva attraversare stradine strette tra grandi sagome di case antiche, dove l’unica luce fioca era quella delle lampade a gas pubbliche. Per vincere la paura fischiettava. Due signorine aristocratiche, che abitavano proprio in uno di questi palazzi, attendevano il passaggio, avvertite dal fischiettio, per lasciar cadere dal balcone i liquidi puzzolenti che avevano lasciati in quel luogo. Don Michele mi ripeteva con amarezza: “L’America mi ha fatto professore, altrimenti sarei rimasto per queste persone il nipote del calzolaio!”
Un altro episodio che ricordo lucidamente capitò il giorno in cui andammo a colazione insieme in un ristorante di Serino. Ordinammo un primo piatto: ci fu servita una bella pastasciutta fumante. Don Michele iniziò a mangiarla con l’ausilio di una fetta di pane. Fu la sola portata che consumò. All’uscita dal ristorante mi permisi di chiedere, non senza imbarazzo, il perché avesse mangiato solo quello e per giunta con il pane: “Caro Vincenzo, lo faccio per ricordare del tempo in cui il primo piatto era l’unico pasto della giornata!” Molti altri episodi mi raccontò della sua esistenza ma non è questo il momento per riportali.
Infine va ricordato il suo impegno letterario. Il testo più autorevole, e non unico, che ha realizzato per la sua città natale è Il Minuto più lungo della vita pubblicato nel decennale del terremoto dell’ottanta, dove ancora una volta si evincono i motivi che avevano spinto don Michele a tornare a Solofra. Così recita l’epigrafe posta all’inizio del libro, mutuata dal poeta solofrano canonico teologo Antonio Giliberti, nell’opera Pantheon Solophranum del 1886: “Solofra: Che vivano in questo luogo / i tuoi figli continuamente / una vita felice e nello stesso tempo / rifioriscano i costumi e la Religione / degli Antenati.”     
A conclusione di questo breve intervento, vorrei ricordare che don Michele Ricciardelli moltissimo ha dato alla sua città natale e agli uomini del suo tempo, gratuitamente, senza ricevere alcun segno di riconoscenza. Oggi dal suo avello disposto, per sua volontà,  lontano dalla città natale, promana l’energia di quegli” uomini forti” che i versi del Foscolo rendono alla memoria dei contemporanei come “immortali”.