lunedì 29 ottobre 2012

Recensione: Il pittore di parole


di Miriam Mastrovito pubblicata in Leggere è magia


Autore: Marco Fratta
Editore: Fara
Pagine: 90
Prezzo: 11,00 euro
Opera vincitrice del concorso Faraexcelsior 2012

Descrizione:
“Ma cosa ci troverai di così meraviglioso in questa Scandinavia?!”. Parole frequenti, interrotte dalle note orgogliose del mio basso elettrico. Parole che ascolto fin dai tempi in cui ogni sogno sembrava possibile… e radermi una sola volta alla settimana era perfino eccessivo. Eppure io sentivo addosso le suggestioni di quella terra già da adolescente. “La dipingerò” mi promisi più volte. O meglio “ci dipingerò dentro una storia”. Perché oltre la Scandinavia e il basso elettrico, tra le mie passioni, c’erano anche le parole. Potrei sostituire la Scandinavia con il paradiso, ma non andrei da nessuna parte senza le parole.
L'autore:
Marco Fratta  è nato a Torino nel 1987. Scrive romanzi, poesie, racconti e suona il basso elettrico. Ha pubblicato il romano La scatola nera (La Riflessione 2007) e la raccolta Il ronzio degli insonni – Poesie dal 2004 al 2008 (Lulu 2009). Il romanzo d’esordio è stato pubblicato anche in lingua francese in formato ebook (La Boîte Noire, Abelbooks 2012, traduzione a cura di Marie-Bernadette Giraud). Nel 2009, con la collaborazione degli attori Alan Mauro Vai e Vincenzo Di Federico, ha creato il Marco Fratta Reading Project, forse il primo reading italiano su sottofondi di basso solo. Alcune parti dello show si possono trovare su Youtube e Vimeo. Da sempre appassionato di Rock Progressive, ha suonato con promettenti formazioni di rock d’avanguardia, ma ha anche collaborato con alcuni cantautori tra cui Mezzafemmina (al
secolo Gianluca Conte). Per lui ha arrangiato
e suonato le parti di basso del disco Storie a bassa audience prodotto da Gigi Giancursi & Perturbazione.
La mia recensione:
I poeti “frammentano le impressioni per sentirsi meno piccoli, che non vuol dire sentirsi più grandi: si tratta di colmare il proprio vuoto di fronte all’immenso scrivendo parole senza tempo”.
Una verità innegabile, disarmante nella sua semplicità, ma a chi parlano oggi i poeti?
Questa necessità di infinito può avere ancora una collocazione al di fuori dei confini angusti di un esercizio solipsistico? Quello del poeta, almeno in Italia, è un mestiere morto da un pezzo.
Così Dario Barberi, inseguendo un desiderio all’apparenza irrealizzabile, decide di trasferirsi in Svezia, terra, probabilmente, più ricca di opportunità. Non è solo ad affrontare il viaggio, con lui c’è l’amico Bernard. Quest’ultimo non ha nulla da spartire con i versi, è un ingegnere, ma anch’egli fatica a trovare lavoro in patria e insegue un sogno bizzarro: progettare giostre.
In effetti le loro speranze non vengono disattese. Bernard trova subito impiego come ricercatore riuscendo a guadagnarsi da vivere senza dover accantonare il suo progetto, mentre Dario riceve una originalissima proposta di lavoro. Il direttore del Göteborgs Museum, Strandberg, innamoratosi della sua poesia, lo assume come pittore di parole. L’idea è semplice quanto innovativa, si tratta di organizzare delle mostre affiancando a ogni opera un’altra espressione artistica. Il poeta non deve far altro che osservare le tele e comporre dei versi che esprimano le sue sensazioni mentre le guarda.
Tutto sembra volgere al meglio. I due giovani sentono, finalmente, di poter raggiungere i rispettivi obiettivi ma i sogni, si sa, non durano per sempre. Spesso accade di doversi svegliare e fare i conti con una realtà irta di spine.
Può succedere che le parole si esauriscano o che una giostra si blocchi in assenza della giusta velocità. A quel punto reinventarsi diventa inevitabile.
Pittore di parole, non meno del suo protagonista, Marco Fratta tratteggia una storia dolce-amara, dai risvolti inattesi. Un racconto di breve respiro, in termini di lunghezza, ma che lascia senza fiato per l’intensità delle emozioni che riesce a trasmettere. La freschezza dei dialoghi caratterizzati da uno stile giovanile, colorito di espressioni gergali, si armonizza con la prosa poetica, ricca di metafore, che sorregge le parti narrate. Lo stesso paesaggio si compone di immagini vibranti di vita. Le linee rosa del cielo al tramonto sembrano arrivare in ritardo all’appuntamento con la sera,  la brezza vira verso ovest come un elicottero impazzito, mentre chiome bionde di donne bellissime raccontano la storia di un pezzo di terra che stuzzica le meraviglie del mondo.
È in questa cornice suggestiva − omaggio a un paese di cui l’autore è evidentemente innamorato − che i destini di Dario e Bernard si legano a filo doppio tessendo una trama lineare ma che con grande efficacia ci parla di amore, amicizia, speranze, cambiamento.
Se la svolta drammatica nelle vite dei due protagonisti ci pone a confronto con l’amarezza del disincanto che, inevitabilmente, segue qualsiasi percorso di crescita, la costante riflessione sulla Poesia e sulla condizione dell’essere poeti ci induce a riflettere su alcuni aspetti critici della nostra società. Non solo chi compone versi ma gli artisti in senso lato (scrittori, pittori o musicisti che siano) si ritrovano oggi a fare i conti con una realtà asfittica sopravvivere nella quale, spesso, non è questione di solo talento.
“Compresi che un artista per campare ha bisogno di qualcuno di importante che dica è lui! È un artista! E tutti gli vanno dietro.” − confesserà a Dario il famosissimo pittore James Baley − “Il pubblico ha bisogno di essere guidato, è molto difficile che scelga”.
In questa triste constatazione i due artisti non potranno che riconoscersi scoprendo di avere in comune molto più di quanto avrebbero immaginato. E molto più di quanto si possa presumere ha in comune con loro Bernard, anch’egli artista sebbene in modo diverso. Il suo progetto di una giostra rappresenterà, infatti, una chiave di volta. Una risposta, forse, in cui non c’è soluzione ma nelle cui pieghe si annida la consapevolezza che qualsiasi atto creativo, più o meno riuscito che sia, non può prescindere dall’amore. Sicuramente Il pittore di parole si pone all’attenzione del lettore come un bellissimo atto d’amore nei confronti della parola scritta.
 

venerdì 19 ottobre 2012

Fariani a Chiari 10 nov

Nell'ambito della Rassegna della Microeditoria che si svolge a Chiari (BS) dal 9 all'11 novembre 2012, è possibile ascoltare e dibattere con un manipolo di giovani (anagraficamente e/o dentro) scrittori che in versi, prose o saggi si mettono in gioco sul tema

Perché scrivere oggi?

sabato 10 novembre 
ore 12.00-13.30
Sala Morcelli

partecipano alcuni autori (Alessandro Ramberti, Davide Valecchi, Eros Olivotto, Franca Oberti, Giuseppe Caraccchia, Guido Passini/Matteo Buccioli, Natascia Ancarani) pubblicati nel volume Scrivere per il futuro ai tempi delle nuvole informatiche (notizie su di loro qui)





e inoltre Corrado Giamboni, Daniela Mena, Gianni Bergamaschi e Nino Di Paolo (nella foto qui sotto in una precedente partecipazione alla Microeditoria)



vi aspettiamo!


lunedì 15 ottobre 2012

Storia, cultura e… castagne a Calvanico 19 ott

Vincenzo D’Alessio

Calvanico: il locus e la produzione delle castagne
(dal documento del Codice Diplomatico di Cava de’ Tirreni del 1032 ad oggi)
- Notizie e tradizioni-

Gruppo Culturale “F. Guarini” - 2012

Calvanico, è un luogo antichissimo: lo riportano i documenti della Badia di Cava che lo scorso anno 2011 ha celebrato il primo millennio dalla sua fondazione ad opera del nobile salernitano Alferio. Il documento che abbiamo ripreso dal Codice Diplomatico della Badia è datato 1032* e riporta l’atto notarile in cui si fa memoria di “benedictu de calbanicu”, figlio di “Rodenandi”, e del castagneto situato a Calvanico nel luogo denominato “ad cupula”.

Il castagneto, oggetto di questo atto, era di proprietà diretta del principe longobardo indicato come “gloriosa potestas”: “si tratta di Guaimaro IV che lo detiene in proprietà con i fratelli Guido e Pandolfo (questo secondo sarà conte di Capaccio, sposo di Teodora dei conti di Tuscolo e quindi della famiglia dei coevi papi. È la classica dimostrazione come non essendoci al Sud uno Stato centralizzato come al Nord, ove il potere impersonato dal re o dai principi era proprietario di tutto, qui da noi ogni principe doveva crearsi una personale proprietà, beni solo suoi, terreni case, castagneti, etc. per poter tirare avanti, ovvero quelli che poi saranno chiamati beni burgensatici.” (nota del meridionalista Pasquale Natella)

L’atto mette in evidenza l’importanza che Calvanico assumeva in quel periodo per la presenza di proprietà dirette del Principe longobardo. Il quale in casi gravi sarebbe intervenuto direttamente. Il sito “ad cupola”, che ad Est aveva come confine un vallone, oggi è difficile ricollocarlo sul territorio di Calvanico.

Nell’atto Visiniano, sculdascio (cioè curatore delle proprietà del principe), mette in evidenza come viene raccolto il frutto dei castagneti, i miglioramenti studiati e apportati per la continuità del buon raccolto, infine il modo in cui venivano conservate le castagne:

“Et totum illut cultemus et studiemus et laboremus omnes annos, sicut meruerit, et salbum illut faciamus, sicut bonum paread laboratum et cultatum et salbum, ut proficiad et non disperead, et omnes annos apto tempore castanee ipse que ibi fuerint, colligamus et colligere faciamus et seckemus ad domus nostras in ipso locum, ubi nos habitamus, et faciamus scire apto tempore omnes annos, quando meruerit, ordinatum de pars ipsius gloriose potestatis et de ipsi fratres sui, ut ibi veniad aut dirigad missum, et nos castanee ipse secke dividamus in tres partes: inclita tertiam partem de ipse castanee demus omnes annos ad ordinatum ipsum, vel ad eius missum qui ibi veniet, et due partis inde nobis habeamus. Et per iussionem ipsius supradicte gloriose potestatis guadia mihi ipse visianus dedit, et mediatorem mihi posuit alderisi notarius filius quondam alderissi qui musandus vocabit;”(Documento n. DCCCXLIII)

“E qui tutto coltiveremo e studieremo e lavoreremo tutti gli anni, così come sarà utile, e qui lo manterremo integro, così apparirà buono e lavorato e coltivato e integro, affinché progredisca e non vada perduto; e tutti gli anni, nel giusto tempo le stesse castagne che vi saranno, le raccoglieremo e faremo raccogliere e seccare a casa nostra in quello stesso luogo dove abitiamo, e avvisiamo ogni anno nel tempo adatto,quando sarà opportuno, come ordinato da parte della stessa gloriosa sovranità e dagli stessi suoi fratelli, quando qui verrà o sarà inviato un suo messaggero, e le nostre stesse castagne secche saranno divise in tre parti: la prima e giusta parte di queste stesse castagne la daremo tutti gli anni come ordinato da quello stesso, o al suo messaggero che qui verrà, e quindi due parti le avremo noi. E per questo stesso diritto della sopraddetta gloriosa potestà a me ha dato lo stesso Visiniano sculdascio e come mediatore ho posto il notaio Alderisio figlio di Alderissi chimato “musandus” (traduzione curata dal redattore e dal dr. Gerardo Mele).

In sostanza il documento che abbiamo analizzato indica che nel periodo longobardo le terre di Calvanico, che ricadevano nel Gastaldato di Rota (Rotense Finibus) attuale Mercato San Severino, conobbero un miglioramento nella coltivazione del castagno e nella conservazione del frutto. Il termine seccare indica una pratica in uso ancora oggi: le castagne vengono lasciate per breve tempo all’aria aperta (ventilazione) poi messe in forno a temperatura minima, a questo punto si possono conservare tranquillamente per periodi abbastanza lunghi. C’è anche la conservazione mediante il fumo, ma nel testo non è citata.

I castagneti di Calvanico sono secolari in diversi luoghi, lungo le sponde dei corsi d’acqua e la loro sistemazione risente ancora di quell’ordinamento dato in periodi antichi. Le castagne hanno sfamato per secoli le generazioni degli uomini permettendo loro di affrontare periodi lunghi di malattie endemiche, guerre e carestie. Non sono mancate nel corso dei secoli le malattie che hanno attaccato i castagneti: di recente si ricorda il cancro negli anni settanta e ultimo il “cinipide galligeno”, mettendo a rischio la sopravvivenza dell’albero di castagno.

Data l’antichità e l’ottima qualità della “castagna calvanicese” sarebbe opportuno che l’Amministrazione Comunale unita alla Pro Loco Calvanico che cura da trentacinque anni la Sagra della Castagna, si facesse portavoce presso la Camera di Commercio di Salerno al fine di ottenere per questo magnifico prodotto il marchio di Denominazione di Origine Controllata.

Oltre alle buonissime caldarroste, alle castagne lesse, alle castagne morbide affumicate dette “castagne del prete”, alla farina di castagna, alle castagne conservate nel miele, alle torte dolci di castagne , figura al primo posto come dolce tradizionale “ ‘o cazunciello” (dolce ricavato da una sfoglia di pasta frolla con all’interno un ripieno di purea di castagne dal profumato sapore di cioccolato) la cui ricetta è gelosamente tramandata dalle famiglie di Calvanico da secoli.
 

· per la nota a pag.1 vedi: R. Bergamo e V. D’Alessio Calvanico alla ricerca delle origini (Ediz. G.C. “F. Guarini”, 1995).

Su Non lasciarmi andare via di Maria Di Lorenzo

Marimar Milano 2012 (romanzo e-book)

recensione di Narda Fattori

Si legge d’un fiato questo romanzo di Maria Di Lorenzo, che pure conserva l’unicità della voce narrante e del punto di vista. Non è una storia che ha colpi di scena, escamotage drammatici o linguistici per affascinare il lettore ed avvincerlo alla pagina e al prosieguo della lettura.

Sono pochi, a mio parere, gli scrittori che hanno saputo avvincere il lettore con la narrazione di una vita “qualunque”, normale, di quotidianità quasi convissute (Baricco, la prima Tamaro, la prima Morante… sono nomi consacrati che hanno conosciuto il successo senza usare scorciatoie, colpi di scena, con un linguaggio monologante ma mai noioso). Qui la scrittrice ha vinto sfoderando grandi abilità narrative. Esaminiamo alcune delle strategie compositive usate.

Maria Di Lorenzo riesce a tenere desto l’interesse del lettore attraverso un armamentario narrativo che padroneggia; prima di tutto il linguaggio, sempre piano, colto senza essere ricercato, che spesso riusa piccole frasi che sono diventate quasi modi di dire: “Il mio cuore è un paese straniero” , questi riconoscimenti consentono al lettore di ritrovarsi, di essere preso in considerazione in ciò che sa o che ha orecchiato; poi lo stile, definito da costrutti quasi sempre brevi, se non paratattici e quindi facilmente accessibili alla comprensione; piccole strategie che promuovono l’attenzione come un sapiente uso degli spazi, sì da non spaventare il lettore con pagine piene di fitta scrittura; efficace anche la sottolineatura di moti d’animo e di eventi con l’utilizzo, a capo, di una solo o poche parole.

Una ulteriore prova di competenza narrativa, che cattura la curiosità del lettore e ne conquista l’attenzione, nasce dall’uso sapiente di analessi e prolessi, ovvero degli spostamenti temporali (la prolessi è un flashforward, ovvero qualcosa che accadrà nel futuro, che si dà per accaduto ma deve ancora accadere, l'analessi è un flashback, ovvero si parla di qualcosa accaduto nel passato); dall’intreccio sapiente di questi piani temporali solo alla fine della lettura otteniamo l’affresco completo perché, come per il completamento di un puzzle, finalmente abbiamo tutte le tessere.

Anche il tempo storico che accoglie gli eventi è il tempo dei grandi cambiamenti: gli anni Sessanta e Settanta che tanto hanno modificato il costume, anche quando il cambiamento era rifiutato.

La protagonista, nata e vissuta in una enclave tradizionalista dove sembra trovarsi a suo agio perché rassicurante, in realtà può studiare, spostarsi, compiere scelte coraggiose perché il riconoscimento dell’individualità era nell’aria, si respirava.

L’ambiente è anch’esso un protagonista; la Sicilia che è descritta non è macchiettista né tragica né oleografica; è una terra dignitosa che porta le stimmate di un lungo contatto con antiche civiltà come l’idea del fato, forza a cui non ci si può opporre, concetto che appartiene sia alla cultura greca che a quella araba ( Inshallah: se dio vuole); è una Sicilia piena di contraddizioni, di donne bellissime costrette a mortificare la loro bellezza, silenziose e spesso private dalle manifestazioni esteriori degli affetti, incapaci a loro volta di esprimersi nella gestualità affettiva, e tuttavia sapienti, di incrollabili certezze, disposte al sacrificio, sempre. Sono loro le colonne che consentono il dipanarsi degli eventi perché esse sono sempre presenti, non immote né statiche, ma salde. Le donne sono come le cariatidi, portano il peso del tempio, del mondo e, seppure con dolenzie ed errori, non deflettono mai dall’impegno. Sono il porto sicuro, anche quando il testimone sembra passare da nonna a nipote, anziché da madre in figlia.

Il libro, infatti, vuole cucire il rapporto mancato fra una madre e una figlia.

È la madre che racconta in una lunga lettera e dà ragione delle sue emozioni, delle sue sofferenze, delle scelte compiute e/o subite. La madre quasi ripudiata da una figlia adulta (venticinquenne) capisce che è finalmente giunto il tempo dello svelamento; non è interessata al perdono, forse neppure ad una comprensione intima: desidera instaurare finalmente un dialogo che le rare volte che si è presentato è subito caduto.

Per raggiungere il suo intento deve raccontare alla figlia la sua storia, come solo lei la conosce e dunque torna a far rivivere una madre chiusa nel dolore e aspra, una nonna amabile, uomini che abbandonavano la famiglia, vuoi per cercar fortuna, vuoi per egoismo, giovani maschi protettivi ma liberi, loro, nelle scelte.

Ci scorrono davanti cinquant’anni di storia, di eventi tragici (le Brigate Rosse, la morte di Enrico Berlinguer, il fratello giudice antimafia…); qui non c’è l’eco, il trafiletto sul quotidiano; gli eventi fanno parte della vita, la penetrano.

Dunque il tempo non è solo un contenitore, dà ragioni a scelte, a vissuti, a sensibilità, a problematiche esistenziali, a strumenti di formazione… è veramente un coprotagonista, sia perché muove lo sviluppo della storia, sia perché ne fornisce il ritmo ma anche perché la incornicia.

Non è semplice riuscire in quest’impresa scrittoria.

Ho letto il libro, stampato in digitale, velocemente, e confesso di essere una forte lettrice, ma anche esigente. Ha il merito di non avermi mai annoiato e di avermi tenuto sempre desto l’interesse. E non è banale, anche se sono presenti alcune stereotipie del siciliano bruno dallo sguardo scuro e seduttivo.

Le perdoniamo perché, in realtà, esistono davvero siciliani così e non sono solo stereotipi.


Per leggere il libro: mariadilorenzo.wordpress.com/non-lasciarmi-andare-via
Maria Di Lorenzo - Scrittrice e giornalista culturale, autrice di cinema e di teatro, ha pubblicato fino ad oggi una quindicina di libri compresi nei generi narrativa, poesia e saggistica. Dopo gli studi classici si è laureata col massimo dei voti in Lettere Moderne all’Università di Urbino, con una tesi di carattere psicoanalitico su Giacomo Leopardi. Ha quindi lavorato come giornalista per il quotidiano «Il Tempo», per la RAI e per altre testate italiane. Attualmente è direttore responsabile del magazine culturale In Purissimo Azzurro, mentre dal 1° giugno 2009 cura sul web il forum letterario Flannery.it dedicato alle donne che scrivono. Vive e lavora tra Roma e Milano, dove tiene anche corsi di scrittura creativa per guarire le ferite interiori e vivere felici (info: segretidiscrittura.wordpress.com). È presente su Facebook con una propria pagina: www.facebook.com/mariadilorenzopage, mentre il suo blog personale è: mariadilorenzo.wordpress.com

Su Diversità apparenti

recensione di Adele Nacci

Ho avuto il piacere di leggere Diversità Apparenti, che ritengo un libro interessante, che tocca vari punti di riflessione da quello sociale e politico a quello economico. Questo potrebbe apparire fuori luogo parlando di disabilità, invece no. Dico questo, perché quello della disabilità costituisce un campo di ricerca dominato in larga parte dal paradigma medico specialistico il quale utilizzando, come riferimento concettuale, la categoria di normalità, non fa altro che considerare la malattia o il deficit come un’interruzione dello stato normale. Dunque questo tipo di approccio specialistico, fa leva sull’assunto ideologico individualista, per analizzare la vita delle persone nelle loro condizioni sociali e materiali di vita.
Al contrario in Diversità Apparenti, è possibile riscontrare un approccio, nel trattare la disabilità, di tipo “sociale”, al quale siamo meno abituati, e che interpreta la salute come uno stato di benessere complessivo che comprende non solo l’aspetto fisico, mentale e sociale, ma anche – cosa fondamentale – l’interazione della persona con l’ambiente circostante. In questo tipo di approccio sociale, la malattia o il deficit è calato nell’ambito della più ampia relazione con fattori sociali, ambientali e fisici, e non sono considerati isolatamente. È  partendo da tale approccio alla disabilità, che si può mettere in evidenza come gli ostacoli all’interazione con gli altri, così come lo stigma, nascono dal sociale, sono il frutto di costruzioni sociali e quindi di condizioni costruite e contingenti. Come giustamente mi fa notare Carla, la mancanza di segnalatori acustici negli attraversamenti pedonali, rappresenta un ostacolo all’interazione sociale, ostacolo che non deriva da una difficoltà funzionale, ma è costruito culturalmente. Nel caso specifico è la concezione dello spazio, così com’è stato pensato, ad essere alla base degli ostacoli. Per rifarmi al sociologo Goffman, il normale e lo stigmatizzato non sono persone, ma prospettive che si producono in interazioni sociali in virtù di norme. Così i luoghi per le persone disabili sono pensati e costruiti in relazione alla patologia e quindi sull’assenza di quelle condizioni che fondano la socialità, la comunicazione, la capacità lavorativa… La caratteristica sociale dei luoghi e degli spazi è quella di poter essere attraversati, scelti, significati da chiunque voglia collocarsi in essi. Mentre i luoghi pensati per i disabili non possono essere utilizzati o frequentati da altre persone! Inoltre, rifacendomi all’approccio sociale teorizzato da M. Oliver, in una società complessa ogni individuo è coinvolto in dinamiche di interdipendenza con altri individui e istituzioni: se ad essere individuato come dipendente è il solo disabile, non è in ragione del deficit, ma del dispositivo di gestione sociale della disabilità, delle forze economiche, politiche e sociali che se ne occupano. Ecco dunque che il libro, sostanzialmente mette in luce tutti quelli che sono i dispositivi istituzionali e culturali che tentano di considerare la disabilità come una tragedia personale, non tenendo conto, invece, che alla base della disabilitazione stanno le contingenze economiche e l’organizzazione del sociale che vi corrisponde.
Infine, vorrei mettere in evidenza, come la disabilità viene affrontata in questo libro, attraverso la narrazione di una esperienza quotidiana con la disabilità, in quanto Carla De Angelis è madre. Allora ben vengano queste narrazioni dei disabili da parte di familiari, amici, educatori, specialisti. Si ha bisogno di una pratica discorsiva che sia capace di mettere in luce gli spazi attraverso cui possono costruirsi le relazioni fra i diversi punti di vista, i loro nodi critici, i vincoli normativi, istituzionali che possono ostacolare queste relazioni continuando a dare spazio al sapere specialistico, che è dominante ed esclusivo nel parlare di disabilità. Carla definisce il libro un atto d’amore e come tutti gli atti d’amore è semplice e complesso: semplice perché sgorga direttamente dal cuore, complesso perché ogni atto d’amore richiede tempo, dedizione, comprensione e com-passione.