giovedì 22 novembre 2012

Prendi 2 Comedìe e ne paghi una!


Fino alla Epifania 2013 puoi avere la Divina Commedia con lo straordinario commento di Massimo Sannelli a metà prezzo: compra almeno due copie e te le spediremo al costo di € 12,00 cadauna più € 3,00 di contributo spese (per l'Italia).

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CODICE BIC/SWIFT: ICRAITRRNO0 (l'ultimo carattere è uno zero).
Grazie per l'attenzione e buon avvicinamento al Natale! 

martedì 20 novembre 2012

Il Primo Convegno Nazionale Micaelico a Calvanico (SA)

dr. Vincenzo D’Alessio

Domenica 18 novembre, alle 15,30, nella Sala Consiliare del Comune di Calvanico si è svolto il 1° Convegno Nazionale sul culto di San Michele Arcangelo organizzato dall’Amministrazione Comunale sotto l’alto patrocinio dell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”; dell’Associazione Internazionale Ricerche sui Santuari, di Monte Sant’Angelo (FG); della Soprintendenza BSAE di Salerno e Avellino; della Pro Loco di Calvanico e inclusa nel circuito “Spazi Sacri e Percorsi Identitari” dell’Istituto degli Studi Cristiani di Bari.
La sala gremita da un folto pubblico di studiosi, giornalisti, fedeli delle valli intorno al Pizzo San Michele, era illuminata dalla presenza della stupenda statuetta dell’Arcangelo, in argento, guardata a vista dal  locale Comitato di San Michele Arcangelo. Dopo i saluti del sindaco Franco Gismondi, dell’assessore alla Cultura Antonio Conforti, dell’arcivescovo mons. Luigi Moretti, del parroco  della comunità  calvanicese don Pasquale Mastrangelo, dell’onorevole Tino Iannuzzi e del Presidente della Pro Loco Raffaele Amoro, ha preso la parola il professore Giorgio Otranto, dell’Università di Bari, fondatore dell’Associazione Internazionale Ricerche sui Santuari, che ha illustrato le finalità del primo convegno a Calvanico e l’importanza dei documenti inediti che la terra delle province di Salerno e Avellino conservano nei monumenti, nelle grotte e nelle aree sacre sparse sulle cime delle montagne.
Di seguito la dottoressa Laura Carnevale dell’Università di Bari ha esposto, avvalendosi di diverse immagini proiettate in sala, l’importanza assunta dalla chiesetta sul Pizzo San Michele, divenuta Santuario con Decreto vescovile il 25 gennaio di quest’anno, quale spazio sacro per tutti i devoti dei comuni sparsi nelle valli sottostanti e il percorso seguito per raggiungere la cima nell’incontro tra Fede e memoria collettiva. Infatti i devoti pellegrini che si ritrovano ogni anno, nei giorni dal 6 all’8 maggio tra le mura della chiesetta, si sentono accomunati dal grande fervore della fatica compiuta nell’ascesa verso la cima (1657mt. s/m) per la remissione di tutte le pene della quotidianità poste ai piedi dell’Arcangelo e il conforto dell’incontro con tante persone provenienti da aree diverse per uno scambio comune di opinioni.
Il Decreto vescovile emesso il 25 gennaio di quest’anno,  ha confermato una devozione lunga più di mille anni, ha voluto consolidare i legami tra devoti e chiesa terrena, ha incrementato la volontà di rendere migliore le forze che alimentano la Fede secolare dei nostri padri devoti al loro Patrono. Inoltre ha permesso di introdurre il Santuario di Calvanico tra i santuari delle diverse Diocesi come luogo più alto di culto a San Michele in Italia. Successivamente la professoressa Luisa Derosa  dell’Università di Bari ha trattato l’argomento degli affreschi, inclusi nella Chiesa del SS. Salvatore di Calvanico, nella cappella di Santa Caterina, detta anche del Rosario, realizzati nel 1669 dal grande Angelo Solimena da Canale di Serino, unico allievo di Francesco Guarini o Guarino da Solofra , consolidando i legami e gli scambi tra le diverse realtà culturali presenti sul territorio.
Il professore Antonio Braca, della Soprintendenza ai BSAE di Salerno e Avellino, ha contornato di immagini, provenienti da ogni parte del mondo, il suo intervento sulla statuetta d’argento dell’Arcangelo di Calvanico rivelandone l’importanza della manifattura dovuta alla bottega dell’artista napoletano Lorenzo Vaccaro, maestro in questo settore insieme al figlio e agli orafi napoletani sul finire del  XVII secolo. Una vera scoperta per tutti gli interventi operati sul pregevolissimo manufatto argenteo nel corso dei secoli successivi e l’impegno da parte della Soprintendenza di continuare nella ricerca e nel restauro dell’effige dell’Arcangelo.
Chi scrive, è intervenuto sulla scoperta a Calvanico (nel 1994) sulle pendici della montagna sacra, il Pizzo san Michele,di un riparo sotto roccia dove sono stati realizzate delle pitture rupestri. Queste rappresentano il legame diretto tra Monte Sant’Angelo, dove è nato il Culto dell’Angelo nel Meridione d’Italia  e l’allora modesto villaggio di Calvanico. Un unico in tutta l’area campana fino ad oggi, dipinte con ogni probabilità da monaci bizantini che in quei secoli convivevano con il nascente Regno Longobardo di Benevento / Salerno. Il luogo, oggi , è completamente fuori dal percorso dei pellegrini mentre in passato doveva costituire una delle tappe del percorso penitenziale, in memoria anche del monaco /eremita vissuto in quei luoghi  che aveva dato inizio al culto aereo sulla cima della montagna.
Il dottore Giacomo Disantarosa, dell’Università di Bari, Polo Ionico, ha sostanziato l’importanza dell’archeologia di montagna, nata negli ultimi cinquant’anni, per scoprire i cambiamenti che hanno caratterizzato nel corso dei millenni i luoghi deputati al culto dell’Arcangelo e confrontarli con lo stato attuale. Un avvertimento a non affrontare cambiamenti radicali in questi luoghi sacri, lasciandoli, per quanto è possibile, nella loro integrità.
Ha chiuso il ciclo degli interventi l’archeologo professore Paolo Peduto dell’Università degli Studi di Salerno, conoscitore e frequentatore dei luoghi a convegno, il quale ha tracciato rapidamente le trame del percorso storico archeologico delle valli incluse nel municipio romano di ROTA, divenuta successivamente sede della potentissima famiglia dei SANSEVERINO di Marsico, sulla scia delle popolazioni avvicendatesi nei luoghi che hanno scelto, da ariani, il culto cristiano all’Arcangelo Michele capo delle milizie celesti e difensore della Fede. L’archeologo ha evidenziato l’importanza della conservazione dei reperti in loco e ha sottolineato, con forza, l’importanza delle energie che promanano direttamente dal popolo: devozione che ha permesso la conservazione degli spazi sacri sparsi lungo il Pizzo San Michele,in parte ancora  da scoprire e valutare, che continua ad alimentare il flusso dei pellegrini verso la cima del Pizzo San Michele.
Nel dibattito, seguito al Convegno, sono intervenuti diversi studiosi meridionali:  Pasquale Natella, Mario Dell’Acqua e Filomeno Moscati, oltre ad altri presenti al convegno. La manifestazione si è chiusa con l’auspicio della pubblicazione degli atti e la diffusione dei contenuti presso le comunità delle valli intorno alla montagna dell’Angelo.
     
Montoro, novembre 2012                             

giovedì 15 novembre 2012

Eventi a S. Miniato





Ridonaci la calma
concerto lirico sacro del tenore
Dom Guglielmo M. Gambina,
monaco benedettino olivetano.
17 novembre 2012 ore 21
Basilica di San Miniato al Monte





Inaugurazione della mostra fotografica
Una porta di speranza
16 novembre 2012, ore 16
presso le "Leopoldine" di Piazza Tasso



Abbazia di San Miniato al Monte - Via delle Porte Sante, 34 - 50125, FI – Italy
www.sanminiatoalmonte.it

giovedì 8 novembre 2012

Su Fedro e la giustizia di Teresa Armenti

nota di lettura di AR

Questa plaquette tirata in solo 39 copie dall'Associazione Culturale LucaniArt nell'ottobre 2012, nasce dalla reazione dell'Autrice alla condanna per difammazione del direttore del «Giornale» Alessandro Sallusti. Teresa Armenti si ricorda della sua tesi di laurea dedicata a Fedro (condannato anch'egli sotto l'imperatore Tiberio) e sceglie 12 favole dedicate alla giustizia, qui tradotte nella saporosa parlata lucana di Castelsarceno. Come osserva introducendo la prima favola 'A vorpa e 'a cicogna: «Per Fedro, la legge che regola i rapporti umani è (…) “Non bisogna danneggiare altri, ma se qualcuno offenderà sia parimenti offeso.”» (p. 3).
In fondo, lo sguardo di Fedro è disancantato.

Commentando 'A vorpa e l'aquila, la Nostra scrive: «La giustizia, anche quando sembra realizzarsi, non rompe la catena dei rapporti di forza e di frode» (p. 5). A volte, come in Pecura, cane e lupo, sembra che il fato faccia giustizia, ma: «La divinità è quasi sempre assente da questo mondo, che è fatto di rapporti di forza, di egoismi, di atuzia, di accortezze» (p. 6). C'è in Fedro anche un approccio pragmatico alla realtà della condizione umana: «Per non avere fastidi, occorre non molestare gli altri. La mosca (III,6) schernisce la mula (…) “Quanta sì lenda! / Nun poi ì cchiù forte? / Hè ti pongo, ti pongo sopra 'u coddo / e to non fai ned'.” / 'A mula rispose: / “(…) / Hé aggio timore sulu 'i quiddo / ca stai assittato e mena 'a frusta. / (…)”» (p. 11).

L'ultima favola, Augusto fac' ra giudice, è proprio la descrizione di un intricato caso giuridico contro una donna accusata di aver ucciso marito e figlio (mentre il figlio era stato inconsapevolmente ucciso per gelosia dal padre, credendolo, sobillato da un servo, l'amante della moglie; scoprendo poi l'errore, si era suicidato). Augusto, considerati i fatti, «(…) ci vedd' chiaro e dess' ste parole: / “'U serivo s'adda punisc', / ra fémmina s'adda avé sulu cumbassione, / picché è rumasta senza figlio e marito. / E si 'u capo 'i casa non si foss' fatte piglià ra gelusia, / nun ci sarera stata 'sta brutta risgrazia.”» (p. 13). Con Traiano, la giustizia augustea sembra purtroppo essere scomparsa, lo stesso Fedro prova sulla propria pelle la corrosione delle calunnie, la prevaricazione dei potenti, l'egoismo e a volte la malvagità della natura umana: «Nelle sue favole, quindi, non si trovano i sentimenti, che sono alla base della dignità dell'uomo e che fondano la civiltà sulla giusitizia. E la storia, purtroppo, si ripete!» (p.14).

Così si conclude questa giustamente indignata e salace plaquette, proponendo a noi tutti, in questo scorcio del 2012, uno sguardo consapevole e non inerte su una reatà certo difficile e scoraggiante, ma che sta un po' a tutti noi, a partire dal proprio quotidiano, dalla condivisione delle proprie competenze, recuperando valori come quelli della fratellanza e della solidarietà, della verità e della giustizia, cambiare.

Per ulteriori approfondimenti e informazioni si veda la  recensione di Vincenzo D'Alessio
www.larecherche.it - lucaniart.wordpress.com

venerdì 2 novembre 2012

Intervista a Marco Fratta


di Miriam Mastrovito, pubblicata su Leggere è magia

 Marco Fratta  è nato a Torino nel 1987. Scrive romanzi, poesie, racconti e suona il basso elettrico. Ha pubblicato il romanzo La scatola nera (La Riflessione 2007) e la raccolta Il ronzio degli insonni – Poesie dal 2004 al 2008 (Lulu 2009). Il romanzo d’esordio è stato pubblicato anche in lingua francese in formato ebook (La Boîte Noire, Abelbooks 2012, traduzione a cura di Marie-Bernadette Giraud). Nel 2009, con la collaborazione degli attori Alan Mauro Vai e Vincenzo Di Federico, ha creato il Marco Fratta Reading Project, forse il primo reading italiano su sottofondi di basso solo. Alcune parti dello show si possono trovare su Youtube e Vimeo. Da sempre appassionato di Rock Progressive, ha suonato con promettenti formazioni di rock d’avanguardia, ma ha anche collaborato con alcuni cantautori tra cui Mezzafemmina (al secolo Gianluca Conte). Per lui ha arrangiato e suonato le parti di basso del disco Storie a bassa audience prodotto da Gigi Giancursi & Perturbazione.


Benvenuto nel mio salottino letterario. Per cominciare, raccontaci qualcosa di te, chi è e perché scrive Marco Fratta?
Questa è sempre la domanda più difficile… provo a metterci dell’ironia. Immagina di camminare per le strade di Torino. Ad un tratto ti imbatti in un tipo con i vestiti scuri che somiglia a George Harrison (ma chi non conosce i Beatles dice Alan Sorrenti ai tempi di Non so che darei). È riservato, single convinto, cinico, vive da solo e ascolta gruppi misconosciuti degli anni settanta. Ha con sé un basso elettrico tutto rosso e un pacchetto di tabacco Old Holborn. Non possiede la televisione dal 2007 e l’auto dal 2009, due scelte che lo rendono una specie di alieno agli occhi della gente comune. Ama scrivere dall’età di sedici anni. Perché lo fa? Perché è innamorato delle parole, e l’amore è incapace di dare buone spiegazioni.

Parliamo del tuo ultimo romanzo, Il pittore di Parole. Com’è nata l’idea?
A marzo del 2012 ho sognato di cercare lavoro nella meravigliosa Göteborg. In un’atmosfera nebulosa e paradossale, tipica di tutti i miei sogni, il Museo delle Belle Arti mi assumeva per scrivere poesie guardando i quadri, con il vincolo di non poterli descrivere. Mi sono svegliato, erano le 03:57. Ho acceso una sigaretta, mi sono dato del folle da solo e ho iniziato a leggere Tre volte all’alba di Baricco. Non dimenticherò mai quella notte.
Esattamente due mesi dopo ho cominciato a scrivere Il pittore di parole, rielaborando la trama del sogno con qualche ingrediente in più.

È inevitabile notare alcune affinità tra te e Dario: entrambi poeti, entrambi innamorati della Svezia e della musica… quanto di te c’è nel tuo protagonista?
Sicuramente Dario Barbieri è una proiezione autobiografica. Ammetto di essermi divertito a dipingere Dario con le mie caratteristiche, alcune molto intime, servendomi però di un racconto di fantastia. Ho parlato del suo amore per i testi di Nick Drake, ho cercato di comunicare la sua passione per la Svezia con la narrazione delle emozioni. E poi ho specificato che non sa vendere se stesso in un mondo in cui l’arte nuda si piega alle esigenze dello spettacolo. Potrei definirlo come un fratello gemello tutto sporco di inchiostro, che vive tra le pagine più significative della mia produzione letteraria. In futuro lo abbandonerò scrivendo nuove storie, ma mi perdonerà: è buono d’animo.

Quale invece il tuo rapporto con Bernard?
Bernard è il migliore amico di Dario, nonostante abbia una personalità agli antipodi della sua. Si sono conosciuti ad una festa Erasmus, prendendosi a cazzotti per colpa di una donna: un evento che li aiuterà a diventare uomini con più consapevolezze, mettendo fuori pericolo il sentimento puro dell’amicizia. Nel romanzo Bernard si esprime in maniera gergale, tende a creare atmosfere di confidenza e rimprovera Dario per l’eccessiva timidezza, che da fuori non sembra temperamento ma paura. Da parte mia è stato emozionante creare un profilo con peculiarità rozze ma allo stesso tempo affettuose e protettive. Sono soddisfatto per il modo in cui ho inserito una buona sensibilità dentro un involucro di ironia e sfrontatezza. Sono esercizi di stile davvero utili.

Quello del poeta in Italia è un mestiere morto da un pezzo. È una constatazione di Dario che ci induce a riflettere su una realtà incontestabile. Nel nostro paese, la poesia sembra non avere più sbocchi, gli editori sono sempre più restii a pubblicarla, i lettori sempre meno propensi a leggerla. Quale la ragione dal tuo punto di vista?
Molti ritengono che il problema sia il numero eccessivo di poeti emergenti. Sostengono, quindi, che la poesia sia un linguaggio ormai inflazionato. Io non sono d’accordo, poiché potrebbero esistere dieci poeti come centomila e la mia curiosità di lettore non subirebbe trasformazioni. Secondo me è qui che si nasconde la risposta: manca la curiosità, la voglia di esplorare. L’intimismo non è più un elemento di interesse collettivo, e questo porta anche alla nascita di minuscole nicchie (sempre più chiuse) che di certo non aiutano l’emancipazione della poesia contemporanea. Nel romanzo infatti compare Tullio Serbelloni, giornalista di una piccola rivista di poesia. Ha la erre moscia e dice cose incomprensibili sottolineando che, comunque sia, i versi di Dario “non hanno nulla a che vedeve con la gvande tvadizione italiana”. Mi sono divertito a prendere un po’ in giro l’aspetto autoreferenziale degli intellettuali, poiché credo sia un’ulteriore causa della paralisi poetica. Per quanto riguarda gli editori restii, invece, chiamo in causa la matematica: niente vendite, allora niente edizioni. Non hanno sicuramente tutti i torti, anche se potrebbero lavorare molto meglio sulla pubblicità.

Uno spazio ideale in cui diverse forme artistiche, come pittura e poesia, possano incontrarsi e, in qualche modo, contaminarsi. Questa è l’idea vincente perseguita da Strandberg nel romanzo. E nella realtà? Potrebbe essere una buona strada da seguire per dare nuova linfa all’arte e risvegliare l’interesse del pubblico?
Potrò risponderti con più esattezza tra qualche mese, perché in questo periodo sto contattando pittori e illustratori per ripetere dal vivo l’esperienza di Dario. Ho intenzione di scrivere poesie davanti alle immagini, per poi organizzare esposizioni nei punti d’interesse artistico a Torino. Tuttavia credo che risvegliare l’interesse del grande pubblico sia una missione troppo difficile. Oggi la società ci bombarda di messaggi che stimolano al consumismo, ad evoluzioni che non hanno nulla di spirituale, all’inserimento in un contesto sociale improntato sull’immagine. Seicento euro per uno smartphone, che diventerà vecchio in pochi mesi lasciando solamente un’illusione di possesso, equivalgono a circa sessanta libri nuovi: alzi la mano chi ha il coraggio. Alzi la mano chi riesce ad innamorarsi di una poesia, che è immune all’ipnotica frenesia che la società ci propina e, fosse poco, ci lascia sognare senza l’aiuto di un display.

Dalle pagine del tuo libro emerge anche un grande amore per la Svezia. Quale il tuo legame con questa terra e cosa rappresenta per te?
Il mio amore per il Nord è nato quando ero ragazzino. Mi perdevo davanti alle illustrazioni dei fiordi norvegesi, dei paesaggi caratterizzati dall’aurora boreale o dai lunghi crepuscoli. In più ho sempre preferito il freddo al caldo. Crescendo la passione è maturata, unendosi a quella letteraria: la mia produzione poetica cresce a dismisura quando fuori dalla finestra ci sono nebbia, neve e tramonti pomeridiani. Inoltre adoro i luoghi selvaggi e incontaminati, amo le poesie di Tomas Tranströmer, apprezzo il contributo degli svedesi alla musica Rock Progressive (il mio genere preferito). A febbraio scorso, spinto da desideri migratori, ho iniziato a prendere lezioni di svedese. Non a caso tra i ringraziamenti del romanzo compare Elisabeth Leosson, la mia insegnante, per tutte le informazioni che mi ha dato.

Con Il pittore di parole hai vinto il concorso Faraexcelsior 2012. Cosa ha significato per te questo riconoscimento?
Vincere un concorso è sicuramente un’esperienza meravigliosa, una spinta motivazionale a non interrompere la propria produzione. I mezzi di un autore esordiente sono pochi, è necessario partire da questa tautologia per capire quanto possa essere preziosa una vittoria. Mi sono piaciuti moltissimo i commenti della giuria: opinioni sincere, articolate, estranee a qualsiasi parametro di vendibilità. Il mondo della letteratura ha urgentemente bisogno di atteggiamenti di questo tipo. Inoltre l’incontro con Alessandro Ramberti, il mio editore,  si è rivelato davvero costruttivo. Ritengo sia un professionista appassionato e per nulla venale, mi piace il rapporto che ha con il suo mestiere.

Il pittore di parole non rappresenta la tua prima esperienza editoriale. Precedentemente hai pubblicato una raccolta di poesie e un romanzo, La scatola nera, tradotto anche in lingua francese. Cosa puoi dirci a proposito della tua esperienza nel mondo editoriale? E del tuo approccio con il mercato estero? 
La scatola nera in italiano non è più disponibile a causa della pessima professionalità editoriale. In pratica la casa editrice ha smesso di stampare le copie molto prima di raggiungere il numero indicato sul contratto (la tendenza di molti editori piccoli, purtroppo, è quella di vendere le copie solamente all’autore). L’esperienza negativa, tuttavia, mi ha spinto a pubblicare con Lulu una raccolta di poesie, Il ronzio degli insonni. Ero desideroso di sperimentare l’autopubblicazione e sono molto contento di averlo fatto. L’edizione francese del romanzo, invece, è uscita per Abelbooks in formato ebook. La promozione è molto difficile, poiché non conosco il francese. Ho diffuso il booktrailer in un circuito di contatti mirati, dagli studenti in Erasmus ai viaggiatori assidui. Spero di ricevere presto buone notizie da parte della casa editrice.

Quale il tuo rapporto con la lettura? Ci sono degli autori a cui ti ispiri o che, in qualche misura, hanno influenzato la tua scrittura?
Amo quegli autori che, oltre a farsi apprezzare per le proprie opere, mi trasmettono un’enorme voglia di scrivere. In narrativa ci sono tre nomi che oggi hanno questo potere, e sono (in ordine alfabetico) Baricco, De Luca e Tabucchi. In poesia Hikmet, Merini, Prévert e Tranströmer. Sette artisti che custodiscono una delle mie maggiori ambizioni: emozionare, sì, ma suscitare anche la voglia di sperimentare lo stesso linguaggio. Sarebbe una grande soddisfazione sentirmi dire “ho finito di leggere il tuo romanzo e poi mi sono messo/a a scrivere”. Ma certe possibilità aumentano solo con l’incremento delle vendite, questo va detto. Finchè il romanzo resta in libreria si può condividere ben poco…

Cos’è il Marco Fratta reading Project? Ti va di parlarcene?
Da inguaribile introverso ho sempre detestato le presentazioni dei libri. Così, nella primavera del 2009, ho ricercato un diversivo che mi permettesse di promuovere le mie opere. A Torino in quel periodo giravano parecchi reading, per cui ho preso la palla al balzo. Ho contattato due attori (Alan Mauro Vai e Vincenzo Di Federico) con cui ho confezionato quasi un’ora di spettacolo con letture su melodie di basso solo. Una cosa assolutamente nuova. Va detto che non avevo fatto i conti con una considerazione fondamentale: il mio reading non era comico ed ignorava completamente le regole dell’intrattenimento. Molti trovavano lo spettacolo poco fruibile o addirittura pesante.

In quale modo hai assimilato questi riscontri?
All’inizio male, molto male. Artisticamente sono entrato in un vortice depressivo che mi ha allontanato dalla scena per quasi due anni, non credevo più nel mio linguaggio letterario e musicale. Poi fortunatamente ne sono uscito. Adesso voglio una vita artistica ricca di sorrisi, belle esperienze, ottimi incontri, e soprattutto… kanelbulle. Voglio un mondo ricoperto di dolcini svedesi alla cannella.

Quanto è importante inseguire i propri sogni per sentirsi vivi? Quali i tuoi sogni nel cassetto e i tuoi progetti per il prossimo futuro?
Personalmente non riesco ad immaginare una vita senza sogni e senza attese. Ciò che ho imparato in quasi dieci anni di attività artistica è che i sogni non vanno difesi dalla sfortuna, ma dall’idealizzazione. Per farlo è necessario dimenticare le stronzate della televisione, le storie contraffatte dei nostri miti adolescenziali, le chimere che chiunque è disposto a venderci: siamo solo noi a poter scrivere la nostra narrazione. Nel romanzo vengono citati appositamente Nick Drake, Van Gogh e Stieg Larrson: tre artisti completamente diversi, vissuti in epoche diverse, che hanno in comune il fatto di essere stati apprezzati solo da morti. C’è da ringraziare che, nonostante l’assenza di popolarità, non abbiano mai abbandonato il desiderio di creare, altrimenti la nostra cultura sarebbe priva di esperimenti unici. Questa è la mentalità che mi accompagna ogni giorno: niente deve trascinare il mio operato in una dimensione di sfiducia, neanche quando una trilogia erotica di poca cosa scavalca le classifiche (ed è solo un esempio, poiché per demotivarsi ogni ingiustizia è buona). Il mio sogno nel cassetto, a questo proposito, è difendere tutti i miei sogni senza dimenticare che la speranza rende schiavi.


Leggi la mia recensione de Il pittore di parole

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Su Fedro e la Giustizia di Teresa Armenti


Associazione Culturale Lucaniart, 2012
recensione di Vincenzo D'Alessio
Vede la luce nei Quaderni dell’Associazione Culturale Lucaniart Onlus, guidata dalla poeta Maria PinaCiancio, il lavoro poetico di Teresa Armenti dal titolo Fedro e la Giustizia – dodici favole rivisitate in dialetto lucano, che confronta il ruolo della Giustizia nel periodo augusteo e ai giorni nostri.
La scrittrice, poeta e storica, riprende uno dei suoi lavori giovanili proponendolo, però, nel dialetto lucano e precisamente quello del luogo dove vive: Castelsaraceno in provincia di Potenza. Il lettore verrà sottoposto ad una ricerca attenta delle parole che nel dialetto lucano suonano in modo molto diverso dall’italiano corrente. In questa ricerca troverà tutta l’antichità delle tradizioni, la purezza della lingua ancora parlata correntemente ai giorni nostri dai castellani, in più armonizzarsi con la musicalità che il verso assume come un’antica ballata.
Vorrei richiamare Albino Pierro e il suo dialetto tursitano per lasciar comprendere al lettore l’importanza della conservazione dell’idioma di quei piccoli centri, quasi isolati, di cui la nostra bella Italia si compone. Vale per i dialetti albofoni e greci, e per tutte quelle realtà minori che arricchiscono il variegato mondo delle tradizioni che  da secoli caratterizzano le parlate “impure” che hanno resistito alle invasioni umane e al corso degli eventi.
Teresa Armenti tenta questa strada, affiancando il nome dell’illustre favolista Fedro, vissuto duemila anni da oggi, alla sua amata realtà castellana. I temi trattati ,i n versi, però sono attualissimi, anzi, oserei dire quanto mai utili. Infatti , agli albori di questo ventunesimo secolo, stiamo vivendo nella nostra penisola gli stessi sommovimenti sociali che attraversano gli altri continenti: ricerca di pace, di giustizia sociale, di ritorno al rispetto dell’uomo in quanto essere umano. In poche parole quello che Fedro insegnava ai suoi contemporanei e insegna anche a noi attraverso il lavoro della Nostra: “Generalmente, coloro che ingannano, scontano il danno che infliggono agli innocenti” (pag. 5).
Non c’è migliore lettura di questa, per placare il dolore che ci giunge dalle società ancora sottomesse ai tiranni; ai luoghi dove i tiranni si vestono di democrazia per ridurre una intera nazione alla povertà; ai luoghi dove le sofferenze della fame e della sete vestono i panni delle multinazionali affamate di energie. Quante “volpi” dobbiamo contare ancora oggi, o quanti lupi, a danno di pochi animali coraggiosi? Fedro lasciava parlare gli animali perché più vicini all’uomo e umanizzandoli lasciava capire quanto sia vicina la sorte che tocca ad entrambi. Anche l’aquila, regina dei cieli e con pochissimi nemici, deve piegarsi alla potenza del fuoco pur di vedere sopravvivere i propri aquilotti: ‘Nu iurno, ‘a reggina ‘i l’avuceddi  stìa vulenno /  ra ‘na ponda a l’ata ru celo, / agguacchiau cert’ vurpicedde, ca erano ssut’ ra forchia / e li purtao addov’ a li figli soi, p’ lli fa mangià. / (omissis) L’aquila, quannu vedd’ c ara vascio s’avvambava, / p’ salivà li figli soi / subbito fec’ scenn’ li vurpacchiedd’, / ca currero ‘mbrazza ‘a mamma.” (pag. 5).
 Parole dialettali come “ cùcumu ‘a creta” , nella favola della volpe e della cicogna ci riportano alle tradizioni contadine del recipiente d’argilla, dal collo stretto, che serviva a contenere l’acqua da bere durante le lunghe e assolate giornate di lavoro nei campi. Oppure il luogo comune della “pignata chiena r’oro” ricorrente in miglia di favole e in tutti i dialetti peninsulari. Il termine “crai” per indicare il giorno come quota temporale.
Fedro sarebbe  oltremodo contento di sentirsi raccontato   in terre così lontane dalla grandissima città di Roma. La comunità di Castelsaraceno, grazie alla sensibilità della poeta Teresa Armenti, ha condiviso nella propria lingua la grande saggezza dell’umanità in cerca della Giustizia, quasi mai raggiunta.